sabato 29 dicembre 2018

Anniversari e Addii: Osvaldo Bayer


Osvaldo Bayer



L’anarchico pacifista che se n’è andato alla vigilia di Natale

Il Natale non gli piaceva, non tollerava il consumo frenetico che lo accompagna, e inoltre era, da sempre, un ateo convinto. Forse per questo molti dei suoi amici hanno considerato una piccola ma significativa coincidenza il fatto che Osvaldo Bayer sia morto proprio il giorno della Vigilia, nella modesta casa di Buenos Aires (Osvaldo Soriano l’aveva ribattezzata El Tugurio), dove la sua famiglia si era trasferita nel 1935, quando lui aveva otto anni e si arrabbiava per le canzonature dei bambini con cui giocava a pallone.

Alemán, culo de pan!, così lo chiamavano, perché suo nonno Josef Georg Payr (un fabbro che, stufo di sentirsi storpiare il cognome, lo cambiò in Bayer, “come l’aspirina”) era emigrato dal Tirolo nella provincia di Santa Fe, dove nel febbraio del 1927 sarebbe nato Osvaldo, destinato a diventare uno degli intellettuali più singolari e amati non solo del suo paese, ma di tutta l’America latina.

Costringerlo nei panni troppo stretti di una qualsiasi definizione non è semplice, perché Bayer è stato molte cose insieme: uno storico laureato in Germania, che al suo ritorno in patria riuscì a portare alla luce vicende sanguinose e dimenticate come le stragi di anarchici e peones nella Patagonia degli anni ’20; un giornalista che, come i leggendari Rodolfo Walsh e Rogelio García Lupo, diede un senso nuovo alla professione e smascherò senza timore i regimi di turno; uno sceneggiatore di film memorabili; un insegnante, un traduttore, un romanziere (sia pure con un'unica opera, Rainer y Minou, tragica storia d’amore tra una ragazza ebrea e il figlio di un nazista), un commediografo, un appassionato tifoso del Rosario Central (sul calcio scrisse, nel 1990, il saggio Fútbol argentino), e perfino l’autore delle parole di tanghi come Severino, dedicato all’anarchico italiano giustiziato a Buenos Aires nel 1931.

Fu, soprattutto, un’ineguagliabile coscienza critica, un anarchico “pacifista a oltranza”, un difensore dei pueblos originarios e delle lotte operaie e contadine, un politico senza partito che dei partiti denunciò ogni bugia, ipocrisia e manchevolezza: considerava il peronismo “un sistema che cambiò tutto per non cambiare assolutamente nulla”, ai radicali non perdonò mai il massacro patagonico e la complicità con i latifondisti, ai Kirchner – pur riconoscendone i meriti riguardo alla memoria e ai diritti umani – rimproverò la mancata riforma agraria, lo scarso impegno nella lotta alla miseria, la corruzione diffusa, mentre della presidenza Macri sottolineò il terribile sapore di un “ritorno agli anni ’30”, a un passato oligarchico e autoritario aggiornato dall’adesione alla più estrema dottrina neoliberista (ma, al minimo sospetto di settarismo, nemmeno l’anarchia è stata esente dalle sue critiche).

I suoi libri, come La Patagonia rebelde, Severino di Giovanni, el idealista de la violencia, Los anarquistas expropriadores y otros ensayos, Rebeldia y esperanza, Qué debemos hacer los anarquistas? (l’ultimo saggio, uscito nel 2014), nascono da un accuratissimo lavoro di ricerca, analisi e documentazione, quanto da una coerenza senza cedimenti, da un’etica rigorosa, da una presenza combattiva e costante a favore di qualsiasi causa ritenesse giusta. E tutto questo Osvaldo Bayer l’ha pagato con soggiorni in galera, con la condanna a morte da parte della Triple A (l’Alianza Anticomunista Argentina, organizzazione paramilitare creata dall’uomo di fiducia di Perón, il piduista López Rega) e, dopo il colpo di stato dei generali, con un lungo esilio in Germania.

L’opera più importante di Osvaldo Bayer riguarda la lotta dei peones contro i latifondisti, quasi tutti inglesi, che in Patagonia avevano acquistato enormi estensioni di terreno. I lavoratori, costretti a vivere in condizioni miserabili, si organizzarono sotto la guida degli anarchici, in buona parte immigrati italiani e spagnoli, e nel 1920 proclamarono uno sciopero che, divenuto aperta ribellione e duramente represso dall’esercito, si concluse nel 1922 con il massacro di almeno millecinquecento persone. A questa epopea dimenticata, Bayer dedicò quattro volumi, usciti fra il 1972 e il 1975 e riuniti sotto il titolo di Los vengadores de la Patagonia trágica, poi sintetizzati nel 2001 in un unico testo, La Patagonia rebelde, pubblicato in Italia da Eleuthera nel 2010 a cura di Alberto Prunetti (il regista Héctor Olivera ne ha tratto un film, Orso d’Argento a Berlino nel 1974, mentre del 2013 è la versione teatrale dell’ultimo capitolo, intitolata Las putas de San Julián).

Non sarà inutile ricordare che la Patagonia ribelle di Bayer, rievocata a partire da una lunga e minuziosa investigazione condotta negli archivi e sul campo (l’autore visse diversi anni a Esquel, dove fondò anche un giornale, La Chispa) è ben diversa da quella di cui parla Bruce Chatwin nel suo In Patagonia, sofisticato libro sulle avventure di un esteta in cerca del bizzarro e del pittoresco. Non a caso Bayer aveva una pessima opinione di Chatwin, che considerava “un truffatore”, sia per le molte inesattezze e invenzioni contenute nel celebre resoconto di viaggio, sia per un punto di vista che giudicava “coloniale”, sia perché lo scrittore inglese aveva attinto con troppa abbondanza e pochi scrupoli alla vasta bibliografia fornitagli, durante un incontro a Buenos Aires, proprio dallo storico argentino. E l’antipatia era ricambiata: nel 1977 Chatwin scrisse un’acidissima recensione del libro di Bayer, definendolo “retorico e ideologico” e sostenendo, da fedele suddito di Sua Maestà, che la verità sulla lotta contro i “legittimi” proprietari terrieri inglesi e il successivo massacro era quella governativa, e che gli anarchici non erano veri sindacalisti, ma bohémiens arruffapopoli.

Durante la dittatura, La Patagonia rebelde e altri libri di Bayer finirono al rogo (“Bruciare i libri è come abusare dei bambini” commentò lui. “Una vigliaccheria, perché non possono difendersi”), mentre il film di Olivera, alla cui diffusione Perón aveva acconsentito di malavoglia e con qualche censura, venne messo al bando; solo dopo il 1983 gli uni e l’altro poterono circolare liberamente, proprio come il loro autore, che tornò in Argentina dopo aver trascorso in Europa gli otto anni più difficili della sua vita.

Da allora, e fino all’ultimo giorno della sua vita, Bayer ha continuato a lavorare, a scrivere, a viaggiare in tutto il paese battendosi per il diritto alla ribellione, per la giustizia sociale, per reclamare contro gli espropri e l’esclusione di cui i pueblos originarios sono vittime ancora oggi. Si è servito della Storia per cercare nel passato le radici dell’ingiustizia presente, e non è un caso se, negli infiniti omaggi a lui dedicati in questi giorni, tornano invariabilmente due parole: luchador e rebelde.

 

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano il manifesto nel dicembre del 2018


lunedì 24 dicembre 2018

Da leggere: Leonora Carrington

Leonora Carrington

 

Un’inglese in Messico: l’infanzia è uno stato d’animo

Il nome di Salvador Elizondo, il più originale e sofisticato tra gli scrittori messicani della sua generazione, è ancora oggi poco noto in Italia, nonostante il piccolo editore Liberaria abbia riproposto mesi fa un suo singolarissimo romanzo, Farabeuf, in una nuova e bella traduzione. Difficile, quindi, supporre che anche il lettore italiano più ostinato e curioso abbia avuto occasione di imbattersi in una delle riviste da lui fondate, S.NOB, vissuta solo dal giugno all’ottobre del 1962, ma abbastanza eterodossa da lasciare il segno (“uno sputo contro il tedio culturale degli anni ’60”, l’ha definita il romanziere Antonio Ortuño), grazie ai paradossi, agli sberleffi e allo humor nero prodotti dai suoi collaboratori, i più straordinari “ragazzi terribili” dell’epoca, come Álvaro Mutis, Jorge Ibargüengoitia, Alejandro Jodorowsky e Juan García Ponce.

Tra loro, con una rubrica tutta sua chiamata Children’s corner, c’era anche l’inglese Leonora Carrington, stabilitasi in Messico nel 1942, dopo essere scampata prima all’autorità di una famiglia ricchissima e conformista (a diciannove anni aveva seguito a Parigi il surrealista Max Ernst, assai più anziano di lei), poi al manicomio in cui l’avevano rinchiusa mentre fuggiva dall’occupazione tedesca, e infine a una lussuosa clinica per malattie mentali nel lontano Sudafrica, dove suo padre intendeva confinare la figlia “scandalosa”.

Pittrice e scultrice di grande talento, etichettata da sempre come surrealista (una definizione che le andava stretta, e che finì col rifiutare), autrice dell’incantevole romanzo Il cornetto acustico e del doloroso memoir Giù in basso, nonché di racconti visionari e macabri – la recentissima edizione italiana si intitola La debuttante –, Leonora Carrington trascorse in Messico buona parte della sua lunga vita e là si sposò con il fotografo ungherese Chiki Weiss, dal quale ebbe due figli. E proprio per Gabriel e Pablo, quando ancora non sapevano leggere, inventò, scrisse e illustrò una decina di storie, alcune delle quali comparvero poi in Children’s Corner, accompagnate da disegni in bianco e nero realizzati appositamente, invece che dalle immagini originarie, create anni prima e conservate in un album noto solo alla famiglia.

Quell’album, molto tempo dopo, Leonora lo regalò a un Alejandro Jodorowsky in partenza per Parigi, che lo conservò come una reliquia preziosa e dopo la morte della pittrice, nel 2011, lo restituì a uno dei suoi primi destinatari, Gabriel Weisz. A sua volta, Weisz lo passò al Fondo de Cultura Economica, storica casa editrice messicana, perché lo trasformasse in due libri bellissimi, usciti nel 2013 e intitolati entrambi Leche del sueño: uno, di grande formato, è un perfetto facsimile dell’originale, in cui appaiono la svelta calligrafia dell’autrice, le sue cancellature e perfino le macchie della carta; l’altro, quasi un tascabile, offre ai bambini di oggi una versione più nitida e ordinata del testo e delle illustrazioni. Riprendendo una definizione dello stesso Weisz, si potrebbe dire che il primo è un libro d’arte con l’aggiunta di storie, e il secondo un libro di storie con l’aggiunta di una buona dose d’arte.

È questa seconda versione “infantile” di Il latte del sogno (pag. 60, e. 15) che Adelphi, editore italiano di tutte le opere di Carrington, manda adesso in libreria nella traduzione di Livia Signorini, basata sull’edizione in inglese e non sullo spagnolo incerto e un po’ sgrammaticato dell’album, legato a un uso prettamente domestico e familiare. Anche se non possiede le suggestioni del facsimile, così evocativo e personale, il libro offre ai bambini e agli adulti molteplici occasioni di lettura, in cui a volte è il testo a prevalere sulle immagini, tracciate in punta di penna con inchiostro seppia, e a volte è l’immagine a proporsi quale racconto suscettibile di ulteriori invenzioni ed elaborazioni, come nel caso del señor Baffo Baffuto, un Giano con due facce che divora mosche, della sua orrenda figlioletta bifronte che mangia ragni, e di una filiforme consorte sempre a testa in giù, senza braccia e con due minuscole ali da cherubino.

Proprio come nei suoi tenebrosi racconti per adulti, anche in quelli per bambini Carrington scatena un popolo di ibridi e mostri, di creature composite e grottesche alla Hieronymus Bosch, imparentate con miti e leggende provenienti da varie culture (da quella celtica, che segnò la sua infanzia, a quella maya), ma li usa solo per suscitare risate e stupore. Quando non si limitano a esibire la loro affascinante stranezza, come in La storia nera della donna bianca, in cui una signora dal ricco abito color carbone (“neri i pigiami e pure il sapone”) piange lacrime verdi e blu simili a pappagallini, i personaggi vivono avventure di assoluta stravaganza, allegramente crudeli, dove le metamorfosi più drastiche avvengono con perfetta naturalezza e si esplorano senza timore differenze e paure, tra rose spalmate di carne di capra, intingoli disgustosi e parlanti, avvoltoi in gelatina, bambini che hanno una casa in miniatura al posto della testa, o vengono morsi dai buchi del divano, o sono decapitati da una strega e ricomposti da un indio sciocco che incolla le teste nei punti sbagliati, dalle natiche alla pianta del piede.

Chi conosce la pittura e la scultura di Leonora Carrington, o i suoi scritti, scoprirà che queste storie (da leggere ad alta voce, da guardare, da completare o da continuare) sono un coerente prolungamento della sua opera, fondata su un immaginario sfaccettato e inesauribile che ci interpella di continuo con voci diverse e inaspettate, aprendo sempre nuove porte sull’incubo, sul sogno, su quello che il sipario della realtà ci nasconde e la voce della ragione rifiuta di dirci. Come in Alice, i bambini di Il latte del sogno sono impavidamente pronti a “credere fino a sei cose impossibili prima di colazione”, e, decisi a fare e disfare il mondo (proprio come Leonora, a suo tempo bambina furiosamente ribelle), ricorrono talvolta all’aiuto di adulti che sanno stare al gioco (proprio come Leonora, madre favolosamente eccentrica, che la ribellione intendeva coltivarla e trasmetterla).

“Credo che nessuno di noi possa sfuggire alla propria infanzia”, ha detto Carrington in una delle sue ultime interviste, e, attraverso ogni più piccola manifestazione della sua arte, ha voluto ricordarci che, al di là di ogni stereotipo, l’infanzia è uno stato d’animo, un prezioso serbatoio al quale si può attingere fino alla fine.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2018

venerdì 21 dicembre 2018

Da leggere: Leonora Carrington


Leonora Carrington



Un’inglese in Messico: la vita straordinaria di Leonora Carrington

Quando, negli anni ’50, qualcuno chiese a Leonora Carrington se esisteva un momento storico che apprezzasse in modo particolare, rispose: “Quasi nessuno, o forse sì. C’è un momento storico che mi piace. Per esempio la Caduta del Patriarcato, che accadrà nel XXI secolo”. Morta a Città del Messico nel 2011, l’artista anglo-messicana ha avuto il tempo di constatare che, almeno in questo inizio secolo, il patriarcato gode ancora di ottima salute. Lei, però, nel corso dei suoi novantaquattro anni di vita l’ha combattuto a ogni istante, già molto tempo prima di contribuire alla fondazione del Movimiento de Liberación de la Mujer messicano: sin dall’infanzia trascorsa nel Lancashire, dov’era nata in una ricca famiglia di industriali, la sua rivolta contro i tradizionali ruoli femminili era stata clamorosa e assoluta.

Tanto il padre, il potente Harold Carrington, primo azionista della Imperial Chemical Industries, quanto la madre Maurie, che, secondo l’uso dell’epoca, demandava la cura della prole alla servitù, non riuscirono mai a domare la loro secondogenita, ben più “virile” dei tre figli maschi: Leonora, detta Prim, era una bambina audace e insubordinata, la cui immaginazione si nutriva di fiabe e leggende celtiche narrate dalla nanny irlandese, e ingaggiò con i genitori una guerra all’ultimo sangue. Espulsa da collegi religiosi via via più rigidi, sgradita ospite dell’elegante istituto di Miss Penrose, a Firenze, e infelicemente presentata a Corte in un sontuoso abito di raso, nel 1936 la diciannovenne Leonora riuscì infine a frequentare l’accademia d’arte del “purista” Amédée Ozenfant e, conosciuto Max Ernst durante un omaggio londinese al già celebre pittore, fuggì con lui a Parigi.

Grazie al tuffo senza rete nell’universo surrealista, in cui Ernst l’aveva introdotta, Leonora conquistò davvero la libertà così furiosamente desiderata? Non proprio: il gruppo che ruotava intorno ad André Breton aveva in serbo per le donne altri ruoli codificati, altri stereotipi. Whitney Chadwick, autrice di Mirror Images: Women Surrealism, and Self-Representation, nonché di Leonora Carrington: la realidad de la imaginacion, fa notare che “nessun movimento artistico, a partire dal Romanticismo, ha elevato la donna a un ruolo altrettanto centrale nella vita creativa dell’uomo, come ha fatto il surrealismo”, ma si affretta a sottolineare che i surrealisti la consideravano una pura proiezione del desiderio maschile: musa, femme fatale e oggetto erotico, oppure femme-enfant tutta istinto, tramite ideale con l’irrazionale, l’occulto, il sogno.

Molti anni dopo, Carrington confesserà: “André Breton e gli uomini del gruppo erano molto maschilisti, ci volevano solo come muse folli e sensuali, per divertirli, per soddisfarli”. E ancora: “Essere una donna surrealista significava, per lo più, preparare la cena per gli uomini surrealisti”. Ma era proprio un perfetto esemplare di femme-enfant che Ernst vedeva in Leonora, tanto da descriverla così nella prefazione a La Dame Ovale: ecco la “sposina del vento”, una bambina che non ha letto nulla, che addirittura non sa leggere, eppure siede, con un libro in mano, tra animali che le si avvicinano senza timore. E se contro la propria famiglia Leonora si era rivoltata con la rabbia cieca che nasce dalla disparità di forze e dall’impotenza infantile, la ribellione nei confronti del nuovo “padre” (Ernst aveva quasi trent’anni più di lei, e fama e prestigio gli conferivano un solido ascendente) fu rallentata dai mille lacci dell’amour-passion e dal timore dell’abbandono, poiché l’amante era ancora sposato con Marie-Berthe Aurenche, fragile e bigotta, che, nonostante Max e Leonora convivessero in una casetta nel sud della Francia, a Saint-Martin-de-Ardèche, continuava a reclamare il ritorno del marito.

Eppure le tracce di una crescente consapevolezza e l’affiorare del rigetto verso il ruolo che le era stato assegnato (“Non avevo tempo per essere la musa di nessuno. Ero troppo occupata a ribellarmi alla mia famiglia e a imparare a essere un’artista”, dirà), si avvertono con chiarezza nei racconti che Leonora aveva cominciato a scrivere proprio a Saint-Martin, “paternamente incoraggiata” da Ernst: una produzione esigua, quella letteraria, se la si paragona alla mole di dipinti, sculture, tessuti, oggetti, gioielli, creati nel corso di una vita lunghissima. Raccolte per la prima volta nel 2017 in The Complete Stories of Leonora Carrington dalla Dorothy Publishing Project (una piccola casa editrice americana che pubblica solo testi scritti da donne), le venticinque short stories appaiono ora in italiano presso Adelphi (La debuttante, pag. 179, e. 17, traduzione di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini), ed è probabile che quelle prodotte negli anni ’30 riserveranno qualche sorpresa perfino agli appassionati lettori di The Hearing Trumpet (Il cornetto acustico, Adelphi 1984), scritto in Messico quando l’autrice era ormai sulla quarantina. A differenza dei racconti databili fra il 1937 e il 1940, Il cornetto acustico è, infatti, frutto di un sostanziale superamento del surrealismo, come dichiarò Carrington a Silvia Cherem: “Anche se le idee dei surrealisti mi attiravano, non mi piace che oggi mi classifichino come surrealista. Preferisco essere femminista. (…) Inoltre il mio orologio non si è fermato in quel momento, sono vissuta solo tre anni con Ernst e non mi va che mi costringano nel ruolo di stupida. Non sono vissuta sotto l’incantesimo di Ernst: sono nata con la mia vocazione e le mie opere sono soltanto mie”.

E’ piuttosto nei racconti appartenenti alla sua “seconda vita” che si intravedono punti di contatto con il romanzo, traboccante di umorismo, di allusioni alla mitologia celtica ed egiziana, di incantesimi e leggende, rituali segreti e bric-à-brac alchemici. Attraverso la vicende di due eccentriche vegliarde, Il cornetto acustico narra il ritorno a un universo retto da un principio femminile (la Grande Madre in tutte le sue incarnazioni, la Dea Bianca di Robert Graves, la cui lettura aveva avuto tanta importanza per Leonora), ed è allo stesso tempo una celebrazione dell’amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo: uno di quegli insostituibili legami tra donne fondati non solo sull’affinità e l’affetto, ma sul riconoscimento della rispettiva autorevolezza, che, secondo la storica dell’arte Linda Nochlin, permise a ciascuna di “trovare sé stessa”, ma di farlo “insieme”.

Prima di poter scrivere un testo così ricco e profondo e al tempo stesso ilare e lieve, Carrington visse una vera e propria discesa agli inferi: la seconda guerra mondiale, l’internamento dell’ebreo Ernst in campo di concentramento, un folle viaggio senza di lui attraverso la Spagna, dove la longa manus della famiglia la raggiunse, trascinandola, sedata e quasi incosciente, in una clinica per malattie mentali di Santander, in cui trascorse mesi atroci e fu sottoposta a trattamenti inumani (un’esperienza rievocata nel breve e terribile Down Below, apparso in italiano col titolo Giù in fondo, Adelphi 1979). Solo grazie al matrimonio di convenienza con il poeta e diplomatico messicano Renato Leduc, che le permise di lasciare l’Europa in guerra e di evitare la partenza per il Sudafrica, dove i Carrington intendevano rinchiuderla definitivamente in manicomio, Leonora approdò a quella che sarebbe diventata la sua nuova patria, il Messico, e là incontrò qualcuno che aveva alle spalle un inferno anche peggiore del suo: Chiki Weiss, fotografo ungherese di poverissima famiglia ebrea, cresciuto in orfanotrofio, scampato al lager tedesco e fuggito a piedi attraverso l’Europa, amico fraterno di Robert Capa, nonché colui che aveva messo al sicuro i negativi di Capa e Gerda Taro contenuti nella famosa maleta mexicana. Non le chiedeva, Chiki, di essere altro che sé stessa, non le era padre ma compagno, riconosceva il suo diritto di vivere a modo proprio, e insieme ebbero due figli amatissimi: il matrimonio durò sessantaquattro anni, anche se ciascuno fece i conti sino alla fine con le proprie cicatrici.

Leonora, dunque, era stata una bambina furibonda, una ragazza ribelle, una musa riluttante, una prigioniera dell’istituzione psichiatrica, per poi rinascere a nuova vita, dopo la morte simbolica provocata dal Cardiazol e la fine del rapporto con Ernst. Ma non si era mai piegata a niente e a nessuno, e, sentendosi “l’autrice di un’altra realtà” più che una surrealista, aveva cominciato a lavorare su un immaginario femminile e femminista, sul rapporto tra le donne e i segreti perduti che desiderava recuperare e a proposito dei quali scrisse, nel ’76: “Le donne non dovrebbero reclamare i loro Diritti. I Diritti erano lì sin dal principio, quello che dobbiamo fare è Recuperarli di Nuovo, includendo i misteri che ci appartenevano e che furono violati, rubati o distrutti, lasciandoci con l’ingrato compito di compiacere il maschio della nostra specie”.

I suoi scritti, spesso “a chiave” e ispirati a quel che le accadeva o alle persone che incontrava, amava, odiava, si popolano di personaggi femminili così decisi a conquistare o salvaguardare l’indipendenza, da pagare volentieri il prezzo dell’isolamento e del rifiuto, o da affrontare la morte. I primi racconti si rifanno ai ricordi d’infanzia e adolescenza, e sono una feroce parodia dell’alta società inglese, oltre che una sorta di allegorica vendetta nei confronti dei genitori. In La dama ovale assistiamo alla metamorfosi della giovane Lucrezia, che in forma di cavallo si rotola nella neve, e alla messa in scena della rottura con un padre crudele, ma anche di quella con Ernst: entrambi tentano di “contenere” la fanciulla artista, uno attraverso rigide norme sociali, l’altro rinchiudendola nel ruolo di musa, o di bambina da manipolare con l’offerta di una libertà illusoria.

In La debuttante, Leonora esibisce il suo rifiuto per l’imposizione dei canoni di una femminilità “accettabile”: al ballo organizzato in suo onore viene sostituita da una iena, che ne indossa gli abiti e nasconde il muso sotto il volto di una domestica uccisa e sbranata per l’occasione. Macabra e sinistramente umoristica, la storia esprime anche un’estraneità profonda, che oppone alla “civiltà delle buone maniere” l’irruzione di un elemento selvaggio e incontrollabile, espresso dal tremendo odore della iena, pronta a fuggire dalla finestra dopo aver divorato la faccia-maschera. Esiste un autoritratto del 1938, oggi al Metropolitan Museum, in cui La dama ovale e La debuttante sembrano incrociarsi: davanti a una Leonora dalla chioma indomabile e dall’aspetto androgino sta una iena che espone mammelle esageratamente femminili, quale provocatorio insulto al “buon gusto”; in alto, appeso alla parete, l’amato cavallo a dondolo che, nel racconto, il padre di Lucrezia brucia senza pietà, mentre all’esterno, inquadrato dalle tende dorate di una finestra, un cavallo bianco corre libero, senza briglie né sella.

L’ordine reale e Zio Sam Carrington sono due autentici sberleffi, uno al potere esercitato con un’assenza di scrupoli che sfocia in un cruento e comico regicidio, e l’altro all’ipocrisia della buona società, con due impeccabili zitellone pronte a eliminare i parenti impresentabili della gente comme il faut. Vola, piccione!, Le sorelle o Il settimo cavallo sono invece visioni oniriche riferibili al rapporto con Max Ernst, in cui le protagoniste si ritrovano chiuse in un mondo claustrofobico e spesso nascondono la loro autentica personalità per compiacere un personaggio maschile più anziano, riflettendo le sensazioni della Leonora reale; in Le sorelle, per esempio, Drusilla, innamorata alla follia dell’ex re Jumart, tiene prigioniera la sorella Juniper, candida vampira alata che però riesce a fuggire: e mentre Drusilla è stretta tra le braccia di Jumart (la cui testa è ornata, in modo più che significativo, dalla carcassa di un pavone), Juniper banchetta col sangue di una serva e poi vola nel cielo notturno, verso la luna… Nel delirante, sensuale e fiabesco “Mentre andavano lungo il margine” si percepisce invece l’eco del timore di perdere l’amante, e la femminilità sfrenata di Virginia Fur, “donna selvatica”, quasi una dea della natura che cavalca con perizia un’enorme ruota, seguita da un corteggio di animali, infuria contro un trasparente alter ego di Marie-Berthe. Ed è in “Un uomo innamorato” che possiamo trovare una spietata presa in giro del maschilismo surrealista: le due donne della storia – una ladra di meloni e una moglie che si consuma in una sorta di animazione sospesa – sono ridotte al silenzio, la prima in quanto ascoltatrice coatta, la seconda in qualità di cadavere vivente, vittima della cecità e del letale talento del marito.

In Il settimo cavallo, del 1940, l’animale totem di Leonora, simbolo di libertà, sensualità e forza, appare per l’ultima volta, e con esso scompaiono per sempre la femme-enfant e il suo latente desiderio di fuga: a prenderne il posto è la donna artista, che ha sciolto il legame tra il suo nome e quella di Ernst. Una rinuncia al passato che in “L’attesa”, scritto, come Il settimo cavallo, nel periodo trascorso a New York prima del trasferimento in Messico, quando la coppia Carrington-Leduc si incontrò con quella formata da Ernst e Peggy Guggenheim, viene ammessa e dolorosamente accettata (il passato può morire, dice nel racconto Margaret/Leonora, “se il presente gli taglia la gola”).

I racconti “messicani”, come Le mie mutande di flanella, Un uomo neutro, Mia madre è una vacca, Una favola messicana e pochi altri, mostrano come la cultura mesoamericana abbia arricchito Leonora, contribuendo alla nascita di una mitologia personale fitta di simboli arcani, già favorita da un forte interesse per l’alchimia e dall’inestinguibile impronta celtica. Carrington continua a scrivere storie in cui animali, creature fantastiche, mostri e spettri (tra i suoi autori preferiti c’era, non a caso, Montague Rhodes James) convivono con gli esseri umani, la realtà è capricciosamente mutevole, la natura enigmatica, densa di meraviglie e a volte minacciosa: racconti ancora pieni di ombre, di personaggi con un’identità ibrida, di provocazioni, della presenza frequente e quasi amichevole della morte, ma resi meno foschi da un’accentuata ironia e dall’esercizio di una comicità inequivocabile.

Sempre concisa, spesso violenta e poetica, basata su libere associazioni di immagini, la prosa di Carrington sostiene a perfezione storie che sfidano la logica e le strutture convenzionali del narrare, che non si curano di arrivare a una conclusione e sciorinano un patrimonio di citazioni pittoriche e letterarie, da Alice all’antichissima collazione di enigmi e parabole contenuti nelle Venticinque storie dello spettro del cadavere della tradizione indiana. L’accostamento che viene spontaneo, leggendo queste short stories mai veramente prese in considerazione dalla critica (forse spiazzata dalla lingua irregolare e dalla ruvidezza della scrittura), è quello con un autore che probabilmente Leonora Carrington non ha mai conosciuto né letto, ossia Juan Rodolfo Wilcock (del quale, certo, non possedeva la perfezione di stile e linguaggio) ma anche con Marosa di Giorgio, grande poetessa uruguayana creatrice di ibridi e mostri. La tardiva apparizione di questo corpus sorprendente – da leggersi avendo sott’occhio i quadri di Carrington, per la quale raccontare dipingendo o scrivendo era quasi la stessa cosa – potrà forse attirare la dovuta attenzione su una delle più straordinarie e insolite artiste vissute a cavallo degli ultimi due secoli, ampiamente rivalutata, finora, solo come pittrice e scultrice.

Peccato, però, che l’edizione Adelphi non contenga alcune informazioni che avrebbero interessato i lettori: sorvola, per esempio, sul fatto che Leonora scrisse alcuni dei suoi racconti in inglese, altri in francese, lingua comune tra lei e Ernst, altri ancora in spagnolo, e che i testi in queste due ultime lingue contengono errori di ortografia e sintassi, ognuno dei quali aggiunge sapore a storie già di per sé stravaganti (e infatti Henri Parisot, suo primo editore, si guardò bene dal correggerli). Non vengono neppure segnalate la datazione dei racconti (tre dei quali inediti) e il fatto che i cinque raccolti nella plaquette La dame ovale (Editions GLM, 1939) fossero illustrati dai collages di Ernst, il che inserisce il libriccino in una pratica estetica cara ai surrealisti, quella della collaborazione interartistica. Sono proprio i collages a permetterci di misurare ancora una volta la natura della relazione tra Ernst e Leonora: nessuna delle immagini ha il minimo rapporto con i racconti, ma rinvia ad altre opere del pittore, e questo totale scollamento tra segno e scrittura, forse voluto, forse casuale, non può non apparire come una manifestazione di affettuosa condiscendenza da parte del maturo mentore verso la sua incantevole femme-enfant. Quando si ritrovarono, prima a Lisbona e poi a New York, si sa che Ernst chiese a Leonora di restare con lui, ma inutilmente: lei si disponeva ormai a vivere un’altra vita, in un paese che l’avrebbe adorata, dipingendo instancabilmente e sognando “di vivere almeno fino a cinquecento anni, e poi morire per evaporazione”.

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta 2 nel dicembre del 2018

domenica 25 novembre 2018

Da leggere: Julián Herbert



Julián Herbert


“Non è la storia che cercavi: è quella che ho”

Fu nel 1910 che Francisco Madero, tenace oppositore del regime di Porfirio Díaz (presidente/dittatore del Messico per trentacinque anni) fece scoccare la prima scintilla della Rivoluzione, invitando il popolo a prendere le armi. A lui si unirono Francisco Villa, Emiliano Zapata, Venustiano Carranza e altri ancora, e nel 1911 Díaz fu costretto a un esilio senza ritorno, mentre Madero veniva assassinato dal suo luogotenente Victoriano Huerta e scoppiava una nuova rivolta guidata da Zapata e Villa: la Rivoluzione aveva cominciato a divorare se stessa e qualche anno dopo si sarebbe incanalata nell’alveo ambiguo del PRI, partito di governo dal 1929 al 2000.

Attorno alla Rivoluzione, ai suoi trionfi e alle sue convulsioni, è nata negli anni una narrativa di stampo epico (letta da molti, criticata da alcuni e presa adeguatamente in giro da altri, come l’irresistibile Jorge Ibargüengoitia), ma pochi si sono azzardati a raccontare un episodio come quello avvenuto nel 1911 a Torreón, cittadina fondata quattro anni prima nel nordest del paese, dove i maderisti avevano messo in fuga l’esercito governativo. Subito dopo l’ingresso in città, le truppe di Madero si scagliarono con violenza inaudita contro la prospera comunità cinese, parte importante quanto silenziosa del complesso mosaico torreonese di nazionalità e culture, e, con il consenso e la partecipazione di buona parte degli abitanti, ne saccheggiarono le case, le terre e le botteghe. Almeno trecentotre persone, quasi tutte originarie di Canton, vennero selvaggiamente assassinate e i cadaveri, smembrati dai machete, gettati giù dalle terrazze, trascinati lungo le strade, furono infine sepolti in una fossa comune, fuori dal cimitero.

Proprio a questa vicenda si rifà La casa del dolore altrui (gran vía, pag. 314, e. 17) che, nell’eccellente traduzione di Francesco Fava, sarà in libreria da domani, a confermare la sorprendente bravura di Julián Herbert, scrittore e poeta, ma anche critico, saggista ed ex leader di gruppi rock come Los Tigres de Borges e Madrastras. Nato ad Acapulco nel 1971, ma da anni residente a Saltillo, non lontano da Torreón, negli ultimi dieci anni Herbert si è imposto come un narratore capace di attraversare generi diversi, cucendoli insieme grazie alla cosiddetta “letteratura dell’io” oggi di moda, piegata però a un’estetica esigente; nella sua produzione spiccano i racconti di Cocaína (manual de usuario), del 2006, il recentissimo Tráiganme la cabeza de Quentin Tarantino, e un romanzo potente e insolito come Ballata per mia madre (gran vía, 2014), in cui rievoca la vita e la morte della madre prostituta, i difficili giorni dell’infanzia, l’accidentato procedere verso la maturità: una mirabile reinvenzione della propria esperienza giocata su tutti i registri, dalla rabbia al lamento all’umorismo più nero.

Adesso, con La casa del dolore altrui, Herbert esplora nuove strade in un’opera che è allo stesso tempo cronaca travolgente, saggio, indagine storiografica, romanzo, reportage, mettendosi in scena come personaggio-narratore che insegue una storia sentita da ragazzo, quando gli avevano raccontato che l’autore del massacro di Torreón era Pancho Villa. Molto tempo dopo, lo storico Carlos Valdés gliela riporterà alla mente, facendogli notare che, per quanto radicata e diffusa, la tradizione orale era falsa, perché in quei giorni il leggendario generale stava assediando Ciudad Juárez: una discrepanza sufficiente a indirizzare la curiosità dello scrittore verso una vicenda che attendeva da sempre di essere raccontata in un altro modo. Così, grazie a una lunga e accuratissima ricerca, Herbert ha rintracciato e utilizzato fonti di ogni genere: libri di Storia, aneddoti, materiali di archivio, fotografie, libelli, memorie, canzoni, voci che corrono, comprese quelle dei tassisti di Torreón (quattro “intermezzi” ce le propongono come una sorta di coro greco), inserendo nel racconto spezzoni della propria vita quotidiana e rivelandoci via via i meccanismi e il “farsi” della propria scrittura.

Oltre alla descrizione asciutta e precisa della mattanza, lo scrittore esamina i fatti che la precedono e la seguono, disegna i ritratti di tredici dei protagonisti, ricostruisce la storia dell’emigrazione cinese e soprattutto dimostra che la rabbiosa xenofobia verso gli orientali aveva radici profonde, precedenti all’arrivo dei maderisti. Il “piccolo genocidio” (così lo chiama Herbert, con ironia) nacque in buona parte dalla propaganda di movimenti come quello di Ricardo Flores Magón, che accusava i cantonesi di rubare il lavoro ai nativi e, ancora prima, dai racconti a sensazione di marinai, mercanti, missionari, in cui i sudditi del Celeste Impero apparivano come poligami, pagani, subdoli, torturatori, lussuriosi… Un’aura quasi demoniaca aveva accompagnato la prima ondata migratoria dei cinesi in America, a metà del XIX secolo, e all’ostilità per una differenza percepita come minaccia e incomprensibile si era aggiunto il timore che gli orientali, fornitori di mano d’opera a buon mercato ma anche abili commercianti, rappresentassero un pericolo per gli interessi americani.

Non è improbabile, suggerisce Herbert, che le oscure leggende sui cinesi fossero arrivate in Messico attraverso i figli delle élites locali, studenti negli Stati Uniti, e che il regime di Porfirio Díaz – incline alle teorie eugenetiche e pronto a considerare “desiderabili” solo i migranti europei – se ne fosse nutrito. Il pogrom fu, insomma, il risultato della diffidenza e del disprezzo ormai incistati nell’immaginario collettivo e a fare da detonatore fu una voce (quella, falsa, di una sparatoria dei cinesi contro i rivoluzionari) che si sparse in un attimo, senza che nessuno si fermasse a verificarne l’autenticità. In seguito, le indagini ufficiali si preoccuparono soprattutto di imporre una “verità” che calunniava le vittime, dava ragione ai soldati, falsificava le dichiarazioni dei testimoni oculari, per il buon nome della Rivoluzione e del Messico. Strutturato in sequenze, quasi come un copione cinematografico, il testo funziona non solo per ciò che racconta, ma per il modo in cui lo fa. Con una scrittura brillante e di grande efficacia, ricca di immagini memorabili (“Immaginavo gli spettri di 303 cinesi che percorrono – con i piedi nudi, bruciati dall’asfalto – le strade di una città che neppure li conosce. L’oblio è più vicino di noi alla natura”), Herbert attinge a materiali diversissimi, accostando i documenti alla voce parallela della cultura popolare e, un capitolo dopo l’altro, collega il passato al presente, per sottolineare sia le origini remote della violenza che è ormai il marchio di fabbrica del suo paese, sia la contraddizione tra la protesta per la discriminazione e il razzismo subiti dai messicani negli USA e il trattamento feroce riservato ai fuggitivi centroamericani, lasciati in balìa della delinquenza organizzata. Ci viene anche svelato, alla fine, il mistero del titolo: “Casa del dolore altrui” è il nome che gli abitanti della zona danno al loro stadio, alludendo all’imbattibilità della squadra locale nelle partite giocate in casa. Un nome che è, secondo l’autore, una perfida parodia della tradizionale ospitalità messicana: “la mia casa è la tua… ma solo per farti male”.

Per comporre un testo del genere, in cui coesistono la situazione della Cina tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, la squadra del Santos Laguna, gli scenari domestici dell’autore, il cartello degli Zetas, le varie forme del capitalismo, infinite citazioni letterarie (Paz, Sada, Pacheco, Sarduy e molti altri si aggirano in queste pagine), la musica pop e l’arte d’avanguardia, i film americani e i corridos, le manipolazioni della verità da parte del potere, il selvatico proliferare dei rumeurs e il silenzio delle vittime, l’ironia e il terrore, occorrono una vasta cultura, un’enorme capacità narrativa e una profonda consapevolezza politica: sarebbe impossibile, altrimenti, ottenere una simile qualità formale e insieme chiedere al Messico di guardarsi in uno specchio spaventoso. “Questa non è la storia che cercavi: è quella che ho” ci dice lo scrittore. E la usa. La usa per stabilire un dialogo serrato e doloroso con il suo paese, ma anche con tutti noi, che navighiamo a vista in acque sempre più buie.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2018

mercoledì 17 ottobre 2018

Anniversari e addii: Hebe Uhart


Hebe Uhart



Una scrittrice unica, un addio silenzioso

Tra le molte foto di Hebe Uhart apparse sui giornali, dopo la sua morte avvenuta l’11 ottobre a Buenos Aires, pochissime la ritraggono sorridente: in genere, ci viene mostrata una donna anziana, non priva di civetteria (una sciarpa colorata, un rossetto vivace) ma dall’aria severa, spesso ritratta sul suo luminoso terrazzo invaso da piante amatissime. Eppure, chiunque l’abbia conosciuta parla innanzitutto di un senso dell’umorismo fuori del comune e di una conversazione scintillante, interrotta da brevi risate esplosive, di malizia infantile. Era, Hebe Uhart, una persona e una scrittrice divertente, di singolare chiarezza e trasparenza, ma capace di condurre il lettore verso insospettate profondità e di rivelargli quanto di insolito, oscuro, folle c’è nella vita quotidiana, nelle piccole vicende domestiche, nelle storie di bambini e donne troppo spesso senza voce, negli incontri casuali, negli infiniti, sconosciuti universi che si trovano, in realtà, a un passo da noi, dietro l’angolo.

Nata nel 1936 a Moreno, paesetto ora divenuto un sobborgo della capitale (“Sono suburbana” spiegava Hebe. “Né contadina, né cittadina”) da una famiglia di immigrati baschi e italiani, Uhart cominciò a scrivere ancora bambina, ma solo quando si trasferì a Buenos Aires per studiare filosofia – una materia che, dopo essere stata maestra rurale, insegnò per oltre vent’anni all’Università – pensò che sì, per lei la scrittura poteva essere più di un passatempo. Come l’uruguayano Mario Levrero, era convinta che scrivere significasse ricordare, e che memoria e immaginazione si identificassero: non c’è bisogno di inventare, diceva, tutto è già lì, in attesa di essere scoperto da chi voglia guardare con attenzione, e soprattutto sappia ascoltare, estraendo da ogni incontro parole nuove o inventate, modi di dire ed espressioni afferrati al volo nei momenti e nei luoghi più imprevisti.

Dal suo esordio con la raccolta di racconti Dios, San Pedro y las Almas (1962), sino all’ultima raccolta di storie vere, l’incantevole Animales (2018), Uhart ha scritto e pubblicato molto (e anche scartato molto, perché se un testo non riesce bene da subito, diceva, è come un vestito tagliato male, non si rimedia più), scegliendo sempre la brevità, tra romanzi che superano di poco le cento pagine e moltissimi racconti, in buona parte sconosciuti al pubblico italiano: solo il romanzo Traslochi (2015), e la raccolta di racconti Turismo urbano (2016) sono apparsi in Italia grazie a Maria Rosa Bricchi, che li ha scoperti per Calabuig, rimediando a una vistosa distrazione della nostra editoria.

Elencare i titoli dei suoi quattro romanzi e delle dieci raccolte di racconti apparsi tra i primi anni sessanta e l’inizio del nuovo secolo significherebbe, in un certo senso, ripercorrere la storia delle piccole case editrici argentine indipendenti, dalla vita così breve che i testi di Uhart andavano afferrati al volo o scovati frugando nelle librerie dell’usato. Anche se i suoi libri erano apparizioni quasi inafferrabili, in molti si accorsero di lei, di quella scrittura unica, di quel singolare approccio nei confronti della realtà (il giudizio lusinghiero di Fogwill, che la considerava la migliore cuentista argentina, e quello altrettanto favorevole di Ricardo Piglia, continuano ad accompagnarla), ma rimase per molti anni una “scrittrice per scrittori”, seguita da un ristretto pubblico di appassionati che sapevano cogliere l’elemento eccentrico e straniante delle sue storie irresistibilmente ironiche, anche quando a ispirarle erano amare vicende familiari o legami amorosi catastrofici, come quelli che Hebe visse con uomini sbagliati e poco rimpianti: uomini con show – che erano cioè dei personaggi, e affascinavano per questo –, raccontava lei senza autocommiserarsi, aggiungendo: “e lo show si paga”.

Fu a partire dal 2003 che le cose cambiarono, quando un editore solido e di grande prestigio come Adriana Hidalgo decise di inserire Uhart nel proprio catalogo, e la conquistata visibilità le assicurò un pubblico più vasto, nonché un riconoscimento e un successo di cui lei non si curò mai troppo, nemmeno quando, nel 2010, l’edizione completa dei suoi racconti da parte di Alfaguara la consacrò come autrice di importanza internazionale. No, a Hebe Uhart la fama non interessava granché, e non le erano mai piaciute le celebrazioni, i convegni, il mundillo intellettuale di Buenos Aires, che le sembrava autoreferenziale, endogamo e pieno di sé; così decise di averne abbastanza degli omaggi alla sua narrativa e di non voler diventare un “automa”, pronto a scrivere ciò che ci si aspettava da lei.

Scelse, a settant’anni, di mettersi in viaggio (viaggiare le era sempre piaciuto) “da qui a lì”, girando tutta l’America latina per sentirsi obbligata a pensare e scrivere cose nuove, a vedere e vivere da vicino margini e periferie. “Voglio che mi spuntino nuove piume”, disse in un’intervista a El País, e diventò la splendida autrice di originalissime cronache di viaggio, piene di immagini, storie e linguaggi che altri occhi, altre orecchie non avrebbero saputo cogliere, e pubblicate con regolarità da Adriana Hidalgo, che ora sta per mandare in libreria l’edizione (ormai postuma) di tutti i suoi romanzi in un solo volume.

Pronta a mettersi in gioco e a cambiare strada pur di restare sé stessa, “maestra” ineguagliabile e levatrice di nuovi talenti, a dire degli allievi del laboratorio di scrittura che per anni ha avuto luogo tra i gatti e le piante del suo minuscolo appartamento, è in un discorso tenuto in Cile, quando le venne assegnato il premio Manuel Rojas, che Hebe Uhart ha espresso con la consueta brevità le sue convinzioni di scrittrice acuta e saggia (una saggezza duramente conquistata), estranea alle convenzioni: “Penso e ho sempre pensato che la coscienza della propria importanza cospiri contro la possibilità di scrivere bene, e soprattutto penso che l’ipertrofia del ruolo giochi contro uno scrittore e qualsiasi artista. Quando vedo che qualcuno si fa un vanto del proprio ruolo, sospetto che non scriva bene”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'ottobre del 2018


Da leggere: Juan José Saer

Juan José Saer



Il tempo e lo spazio di Glossa

Fin dal suo libro d’esordio del 1960, l’antologia di racconti En la Zona, Juan José Saer – insieme a Ricardo Piglia il più importante scrittore argentino dopo Borges – ha avocato a sé un territorio preciso, quello in cui era nato nel 1937, in una famiglia di immigrati siriani: la provincia di Santa Fe, il Delta del Paranà, la pianura, uno spazio più metaforico che geografico dove concentrare figure ricorrenti, un gruppo di amici – riflesso di quello cui lo scrittore rimase sempre fedele, e composto, tra gli altri, dai poeti Juan L. Ortiz e Hugo Gola, dal giornalista Paco Urondo, dal pittore Juan Pablo Renzi – impigliati, come tutti, nella rete di una memoria così mutevole e inafferrabile da mettere in questione la natura, se non l’esistenza stessa, del reale.

L’accentuata intertestualità di ogni storia rimanda alle successive e richiama le precedenti, perfino quando sono separate dai secoli (lo splendido L’arcano si svolge nel XVI secolo, Le Nuvole nell’Argentina pre-indipendenza, La ocasión a metà dell‘800), o dall’oceano (L’indagine è ambientato a Parigi, dove Saer, professore all’Università di Rennes, visse per trentacinque anni e morì nel 2005). E il gioco intertestuale è evidente anche in Glossa – settimo dei dodici romanzi di Saer, la cui eccellente versione italiana di Gina Maneri è appena apparsa presso La Nuova Frontiera (pag. 248, e. 17, 50) – sin dalla prima frase, uno di quegli incipit così caratteristici della proposta stilistica saeriana, che secondo il critico Julio Premat hanno la funzione di annunciare una continuità e di sottolineare l’aspirazione a un “testo infinito”, come mostrano i Papeles de trabajo. Borradores ineditos (Seix Barral, 2012/2013), raccolta in due volumi dei quaderni sui quali lo scrittore argentino ha progettato per anni non solo l’architettura delle singole opere, ma il loro costituirsi in un corpus coerente e strutturato.

La costellazione dei romanzi di Saer (lui preferiva chiamarli “narrazioni”) sembra formare un universo in espansione, che non si stanca di raccogliere e dilatare grumi e frammenti, a volte infinitesimali. Glossa, pubblicato per la prima volta nel 1986 e considerato da molti il miglior romanzo dell’autore, di questo universo rappresenta in un certo senso il fulcro, quasi una mappa della poetica di Saer, disegnata intorno all’incontro casuale tra Angel Leto, contabile poco più che ventenne, e il Matematico, ingegnere di buona famiglia, appena rientrato dal suo Grand Tour.

I due non hanno molto in comune, se non l’amico Tomatis e certe simpatie politiche di sinistra, ma camminano insieme per un’ora intera, conversando, tra i quartieri residenziali e il centro di una Santa Fe mai nominata e “ricostruita” per adattarsi ai loro passi: le tre parti in cui è diviso il libro, prive di interruzioni e povere di capoversi, corrispondono ciascuna a sette dei ventuno isolati percorsi durante la lunga passeggiata, in cui si percepisce un’eco parodica del Simposio di Platone (anche se oziose piccolezze sostituiscono le riflessioni filosofiche), o della conversazione tra Stephen Dedalus e Bloom.

Camminano, il Matematico con le sue lunghe gambe e l’immacolato completo bianco, il piccolo Leto nei suoi abiti un po’ lisi, spiando con la coda dell’occhio le reazioni dell’altro, seguendo il filo dei propri pensieri, e soprattutto parlando della festa avvenuta, tra l’asado (una “cerimonia” ricorrente, in Saer) e abbondanti bevute, nella casa di campagna di Washington Noriega, poeta e intellettuale marxista, in occasione del suo sessantacinquesimo compleanno. Nessuno dei due vi ha assistito, ma Botón, uno degli invitati, ha raccontato la serata al Matematico, che per tutta la vita rimpiangerà di non esserci stato. Quella riferita a Leto, che ascolta distrattamente, è perciò la versione di Botón, contrastante con il maligno resoconto che ne farà Tomatis, assediato dalla depressione, quando lo incontreranno davanti al giornale dove lavora. E ci sarà, diciotto anni dopo, una terza versione, quella di Pichón Garay, che a Parigi evocherà una festa ancora diversa, dove secondo lui c’era anche il Matematico, che invece in quei giorni stava visitando l’Europa. A poco a poco, il lettore si rende conto del perché l’autore abbia scelto come titolo una parola mai citata nel testo: glossa, ovvero una nota esplicativa o di commento, che in lingua spagnola indica anche una variazione musicale sulle medesime note, o una composizione poetica in cui ogni strofa termina con un verso che verrà ripreso all’inizio della seguente. Fedele al suo titolo, Glossa è appunto un romanzo fatto di versioni, variazioni, ripetizioni, anticipazioni, che rendono impossibile comporre un’unica e attendibile storia.

La festa, con i suoi incidenti, le discussioni sulla possibilità che un certo cavallo abbia o no inciampato, il racconto di Washington sulle tre zanzare che hanno disturbato la laboriosa stesura delle sue quattro conferenze sugli indios Colastiné, le notizie contrastanti su un evento in fondo irrilevante, si rivelano così il pretesto per evocare l’accumularsi di voci che si influenzano e smentiscono a vicenda. Le diverse interpretazioni, le differenti glosse si disputano la realtà, facendola a brandelli, giustiziando il concetto di verità e sostituendolo con quello di versione, come del resto preannuncia, nella dedica, una breve citazione da L’urlo e il furore (Faulkner era uno degli scrittori che Saer più ammirava, insieme a Joyce e Onetti), in cui tre persone raccontano in modi opposti la decadenza della loro famiglia.

Ai resoconti della festa si incrociano digressioni e aneddoti sugli assenti, mentre sia il Matematico, assorto nella profonda avversione per la sua classe sociale e per il fratello reazionario e conformista, sia Leto, che convive col ricordo del padre morto (“un suicida insolente”), con le furie melodrammatiche della madre, con le immagini dell’ infanzia, deviano interiormente verso considerazioni intime e private, così da venire rappresentati non a partire da quel che fanno o dicono, ma dalle loro impressioni e riflessioni. Una continua intersezione di piani temporali, inoltre, accompagna la passeggiata, mentre il narratore infila con destrezza nel presente rapide istantanee del passato e del futuro, e nessuno dei due protagonisti si rende conto di avanzare nel tempo ”man mano che avanzano nello spazio, come se ogni passo li portasse in direzioni opposte, a meno che tempo e spazio non siano inseparabili e l’uno sia inconcepibile senza l’altro, ed entrambi inconcepibili senza loro due, Leto e il Matematico, così che camminatori, strada e mattina, formino un getto denso che sgorga placido dalla fontana dell’accadere”.

La complessità del reale e della sua percezione, l’impossibilità di raccoglierne tutti i fili, la difficoltà di raccontarlo e il problema del “come” raccontarlo, sono il tema di fondo dell’opera di Saer, che in Glossa trova compiuta espressione: in un romanzo quasi privo di dialoghi, un narratore che esibisce una sovrabbondante onniscienza (e che si definisce “il sottoscritto” o “il servitore” di chi legge) fa di continuo presente la propria e altrui incertezza e mette a nudo i meccanismi della narrazione, ancorandosi a una difficile scommessa formale e a un raffinatissimo lavoro sul linguaggio, che ricrea il ritmo dell’oralità. Ricca di modulazioni, sfumature poetiche e infinite ripetizioni, la prosa di Saer è disseminata di formule colloquiali (“come dicevamo”, “se vogliamo”, “insomma”, “no?”) quando vengono descritti con dovizia iperrealista i movimenti dei personaggi e lo scenario cittadino, ma diventa a un tratto essenziale, quasi impersonale, nelle poche, succinte pagine in cui il lettore viene informato su quello che accadrà ai personaggi: Leto, entrato nella clandestinità della lotta armata, si avvelenerà con una pastiglia di cianuro per sfuggire a un’imboscata poliziesca; al Matematico uccideranno la moglie, militante trozkista, mentre lui andrà in esilio “nell’inverno nero e terribile” di Stoccolma e suo fratello diventerà ministro del regime; Pichón Garay fuggirà a Parigi, mentre il gemello Gato e la sua compagna Elisa finiranno tra i desaparecidos.

Dietro quella lunga camminata senza meta, dietro le versioni contrastanti della festa, dietro i ricordi e le sensazioni dei personaggi, si annida dunque il tragico destino di un’intera generazione. Giustamente, lo scrittore Martín Kohan ha definito questo libro “uno dei più notevoli romanzi politici che ci abbia dato la letteratura argentina. Così si scrive la politica in Glossa: queste sono le condizioni per la scrittura politica di Juan José Saer. Non ci si aspetta, non si pretende, che la letteratura catturi una realtà, che la afferri, che la plasmi, che la dispieghi, che la indichi, e con tutto questo elabori uno slogan o una conclusione. L’elemento politico in Glossa prende la forma dell’incrostazione, o dell’irruzione…”.

Saer non ha scelto il canone della testimonianza o della denuncia: ha optato piuttosto per la perfezione del linguaggio e della forma, conferendo al romanzo una potenza che si esprime per intero nella visione finale: uccelli mai visti prima che volano freneticamente, lanciando strida impazzite, sopra e intorno a un oggetto che non sanno riconoscere, un pallone giallo da spiaggia, cullato a riva dalle onde del lago, mentre in Leto si insinua la consapevolezza “di quanto smarrimento, terrore e confusione hanno ancora bisogno le specie perdute per erigere, nella casa della coincidenza, il santuario, superfluo, in più di un senso, dei propri, come sembra che li chiamino, dèi”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'ottobre del 2018

lunedì 17 settembre 2018

Da leggere: Andrés Barba

Andrés Barba


L’infanzia, un mondo “altro”

“Quando mi chiedono dei trentadue bambini che hanno perso la vita a San Cristóbal la mia risposta varia a seconda dell’età dell’interlocutore. Se è mio coetaneo rispondo che comprendere significa ricomporre ciò che abbiamo visto soltanto in modo frammentario, se è più giovane gli chiedo se crede o no nei cattivi presagi. Mi rispondono quasi sempre di no, come se crederci equivalesse a nutrire poca stima nella libertà. A quel punto non faccio altre domande e racconto la mia versione dei fatti, perché è l’unica cosa che posso fare e perché sarebbe inutile convincerli che qui non si tratta tanto di apprezzare la libertà quanto di non credere ingenuamente nella giustizia”.

Così, rivelando sin dalla prima riga il terribile dénouement del suo nuovo romanzo, Repubblica luminosa (La nave di Teseo, pag. 188 e. 18, traduzione di Pino Cacucci), Andrés Barba si libera, come lui stesso ha sottolineato, “della tirannia della trama”, e preannuncia l’andamento falsamente cronachistico della narrazione, concepita abilmente come un puzzle con troppi pezzi mancanti (domande senza risposta, ipotesi non verificate, misteri irrisolti) che gli impediscono di arrivare a una forma definitiva. L’incipit conferma, inoltre, anche il ritorno del madrileno Barba – romanziere, saggista, poeta, traduttore e, a poco più di quarant’anni, uno dei migliori esponenti della letteratura spagnola ed europea di oggi – a un tema che gli è specialmente congeniale, ovvero l’infanzia e l’adolescenza, età di passaggio e di trasformazione, già affrontate in modi differenti, nell’ipnotico Piccole mani (Atmosphere, 2011), in La sorella di Katia (Instar libri 2005), e in Agosto, ottobre, pubblicato da Mondadori nel 2010.

Vincitore nel 2017 del Premio Herralde de Novela, Repubblica luminosa potrebbe far parte della vasta letteratura e filmografia sull’alterità di un’infanzia selvaggia, inconoscibile, aliena: sarebbe però riduttivo paragonare il romanzo – che pure racconta di una torma di bambini fra i nove e tredici anni, apparsi dal nulla e capaci di tenere in scacco, a metà degli anni Novanta, i duecentomila abitanti di un’immaginaria cittadina tropicale – a The Lord of the Flies di William Golding, a The Midwich Cuckoos di John Wyndham, a The Children of the Corn di Stephen King, ai perversi cuginetti di Casa de Campo di José Donoso, o alle tante storie di enfants sauvages allevati dagli animali.

Non solo i punti di riferimento dichiarati dall’autore sono altri (Conrad e il suo Cuore di tenebra, la trilogia di Maeterlinck sugli insetti e poi The Children of Leningradsky, documentario del 2004 di Andrzej Celiński e Hanna Polak sui bambini che vivono nel metrò di Mosca, o semplicemente la realtà delle bande di ragazzi di strada nelle metropoli di varie parti del mondo), ma le questioni poste dal romanzo vanno ben oltre la rivisitazione di un mito minaccioso, specularmente opposto a quello della fragile “età dell’innocenza” che ancora oggi abita, con mille varianti, l’immaginario collettivo: l’uno e l’altro invenzioni culturali che “potrebbero costituire un eccellente test proiettivo del sistema di valori e delle aspirazioni di una società”, scriveva nel 1971 Marie-José Chombart de Lauwe in Un mond autre: l’enfance.

Repubblica luminosa è un romanzo indiscutibilmente politico su una comunità infantile portatrice di una sorta di utopia anarchica, sottratta al controllo e agli stereotipi degli adulti, che rifiuta di farsi addomesticare e semina il panico in una città stretta tra la selva e l’immenso fiume Eré: la torpida San Cristobal, appena approdata a un tranquillo benessere, governata da una classe media che si prende cura dei propri figli e non fa caso alla educata miseria dei piccoli indios ñeê, che vendono orchidee e limoni lungo le strade. Anche i trentadue bambini sono poveri, ma qualcosa li rende irreparabilmente diversi: chiedono, esigono, si prendono quello di cui hanno bisogno, parlano una lingua nuova (a stento decifrata solo da Teresa, ragazzina borghese incantata dal fascino di questi “pifferai”, che verranno presto raggiunti da altri bambini della città), ignorano capi e gerarchie, arrivano a uccidere durante un saccheggio, come trascinati dal piacere di un gioco incomprensibile.

Il rifiuto dell’autorità, la capacità di organizzarsi in modo antagonista e di creare un gruppo sociale in cui “nessuno comanda”, la rapidità con cui appaiono e spariscono, si mostrano e si nascondono, e soprattutto il loro potere di attrazione, che ipnotizza e affascina i coetanei, fanno sì che la città smetta rapidamente di considerarli “soltanto bambini”: diventeranno fin troppo in fretta prede da torturare per ottenere informazioni (è la sorte dell’unico ragazzino catturato) e a cui dare la caccia nella foresta e nel sottosuolo, dove il gruppo ha occupato un’enorme sala all’incrocio tra i condotti fognari, ricoprendola con un mosaico di vetri, latta, plastica, un’opera d’arte che brilla meravigliosamente quando la luce penetra dai tombini.

È solo dopo vent’anni che un narratore di cui non sappiamo il nome, che ha rivestito una carica ufficiale e preso parte alla caccia, prova a ricostruire quella storia, che ha indotto i “bravi cittadini” e lui stesso, uomo non privo di senso etico e morale, a elaborare strategie violente e autogiustificazioni dissennate. Se ci sono riusciti, è perché quelli non erano i “loro” bambini, o i quasi invisibili ñeê, ma “i trentadue”: un minimo spostamento semantico che ha trasformato i membri del gruppo in usurpatori capaci di scardinare valori e certezze, mostrando come il mondo ordinato della città non sia l’unico possibile, e come basti poco a sovvertirlo e gettarlo nel caos. Per tornare a essere soltanto bambini, gli invasori dovranno morire travolti dal fiume, mentre cercano di sfuggire ai “cacciatori”, e l’ipocrisia cittadina, oltre a dedicare loro una statua di pessimo gusto, si sforzerà di identificarli e di rintracciare le famiglie da tempo abbandonate: un altro modo, in fondo, di ristabilire l’ordine e rassicurare sé stessi.

Una storia, quella di Repubblica luminosa, che potrebbe accadere e forse accade in molti luoghi, per la quale Barba ha scelto la forma della cronaca e una prosa misuratissima, sommessa e riflessiva, in cui esplodono a tratti scorci di paesaggio dai colori sontuosi, istantanee di volti e di gesti, indimenticabili lampi descrittivi: un cadaverino sepolto in posizione fetale e confortato da offerte di cibo e giocattoli; lo sguardo inquisitivo di un ragazzo sulla donna che ha appena accoltellato a morte; le impronte lasciate da piccoli corpi su giacigli improvvisati. Il narratore (che accenna discreto e malinconico ad affetti, delusioni, perdite, e alla propria rassegnata acquiescenza e viltà) riporta via via ciò che sul caso è stato detto, filmato, scritto da autorità, giornalisti e ricercatori, cita documenti, inserisce brani del diario di Teresa, cuce il tutto con ricordi personali e domande, costruisce a poco a poco un crescendo che irretisce il lettore. Nell’assoluto rigore della scrittura, in apparenza così naturale e in realtà molto sorvegliata, affiorano tocchi di un “gotico tropicale” che non cancella l’effetto realistico attentamente cercato dall’autore, anzi lo sottolinea, e l’essenziale brevità del romanzo contribuisce in modo determinante alla sua riuscita.

 

 

Una versione abbreviata di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018

domenica 9 settembre 2018

Da leggere: Eduardo Mendoza


Eduardo Mendoza



La Storia al servizio delle storie

Un giornalista di nome Rufo Batalla, uomo mediocre, abulico ed egoista, proiettato da una Spagna prigioniera della decrepitezza di Franco in una tumultuosa New York, alla fine degli anni ’60: ecco il protagonista di El rey recibe (Seix Barral, pag. 368, e. 29,51) l’opera più recente di Eduardo Mendoza, da pochi giorni nelle librerie spagnole. Primo volume dell’annunciata trilogia Las tres leyes del movimiento, il libro è un labirintico affresco del periodo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, che attraverso lo sguardo dell’attonito Batalla racconta le contraddizioni della società nordamericana, i cambiamenti politici, l’affacciarsi di nuove forme di espressione e di nuovi fenomeni sociali, il tutto movimentato dal surreale incontro con il pretendente al trono di Livonia, ignorato territorio baltico impermeabile alle avances del cristianesimo e dedito all’esercizio di un tranquillo cannibalismo. Un romanzo in puro stile Mendoza, insomma, con innumerevoli personaggi, trame intricate e divagazioni che innestano nuove storie su quelle principali, una cura straordinaria per il linguaggio e soprattutto un umorismo irriverente e paradossale che è tra le caratteristiche più spiccate dell’autore e che gli consente di leggere il mondo con contenuta e saggia disillusione.

Appena conclusa la presentazione dell’ultimo romanzo alla stampa spagnola, Mendoza (Premio Cervantes nel 2017 e scrittore di grande e indiscusso prestigio) sta per presentarne un altro, finalmente tradotto nonostante risalga al 2010, ai lettori del Festivaletteratura di Mantova, dove sabato sera parlerà con Giancarlo De Cataldo di Città sospesa. Madrid 1936 (DeA Planeta Libri, pag. 472, traduzione di Francesca Pe’), vincitore a suo tempo del Premio Planeta e che in italiano ha dovuto necessariamente cambiare titolo. Quello originale, Riña de gatos, ovvero “zuffa di gatti”, rimanda infatti a un cartone eseguito da Goya per un arazzo, in cui si vedono due furibondi felini che si affrontano in cima a un muretto: e quei gatos (antico soprannome dei madrileni) che stanno per darsi battaglia, rappresentano in questo caso i partigiani del governo nato dal trionfo elettorale del Frente Popular e coloro che invece aderiscono alla Falange fondata da José Antonio Primo de Rivera.

La terribile zuffa è l’immediato preludio allo scontro che sta per travolgere la Repubblica spagnola, come avverte quel “Madrid 1936” che completa il titolo, dandoci la certezza di trovarci davanti all’ennesimo frutto della sterminata letteratura sulla guerra civile spagnola: un romanzo storico sui giorni convulsi che precedettero il colpo di stato di Francisco Franco. Bastano poche pagine, però, per rendersi conto che la scelta di Mendoza è la stessa che nel 1975 segnò il suo magistrale debutto con La verità sul caso Savolta (Feltrinelli, 1995) – un’opera che secondo Javier Marìas “ha insegnato alla maggioranza dei romanzieri venuti in seguito che cosa significava scrivere con libertà” –, ovvero quella di affrontare l’argomento in un modo che si potrebbe definire “laterale”, insinuando nel flusso della Storia personaggi al margine, estranei al contesto in cui si muovono, inconsapevoli e confusi,  prigionieri delle loro piccole storie perfino quando il caso o il destino li trasformano in protagonisti di vicende più grandi.

È quel che accade, per esempio, a Suor Consuelo in Gli anni del diluvio, incantevole romanzo del 1992, o a Onofre Bouvila, rustico zappaterra catalano che diventa un ricchissimo magnate grazie all’astuzia e al delitto, nello splendido La città dei prodigi (1986), forse il più bel romanzo mai scritto su Barcellona, dove Mendoza è nato nel 1943. Ed è quel che accade, soprattutto, all’inglese ed esperto di arte spagnola del Siglo de Oro Anthony Whitelands, straniero chiamato in Spagna per valutare la collezione d’arte di un gioviale duca che vorrebbe venderla clandestinamente, in vista di una probabile “rivoluzione” e del conseguente espatrio. Uomo convenzionale e un po’ sprovveduto, studioso competente dalle speranze sempre deluse, incerto e timoroso dongiovanni, Whitelands possiede tutte le caratteristiche di un “innocente all’estero” che non intende immischiarsi nelle vicende interne di una nazione travagliata, ma che diventa l’ignara pedina di un gioco imperniato sulla ricerca di un leggendario Velazquez, muovendosi (o, più di frequente, venendo mosso) fra trame politiche e diplomatiche di cui nulla sa e nulla capisce, come il detective inglese che in La novela número 13 di Wenceslao Fernández Flórezdel 1942, si occupa stolidamente della ricerca di un cavallo da corsa perduto nella Spagna repubblicana.

Con l’abilità di un narratore onnisciente e distaccato che, grazie a un collaudatissimo mestiere, è capace di tenere insieme tutti i fili di un racconto complesso, in cui trovano posto anche deliziosi excursus sulla storia dell’arte, Mendoza fa muovere un’esuberante e ben caratterizzata folla di personaggi in una Madrid disegnata strada per strada, con una minuziosa fedeltà che si estende anche al linguaggio, ricco di espressioni locali e d’epoca: comunisti, anarchici, falangisti, fascisti, diplomatici, aristocratici, spie sovietiche, gendarmi, soavi prostitute, giovani marchese caustiche e capricciose, mescolati a personaggi reali come José Antonio Primo de Rivera, dandy sentimentale e vanitoso (più un memo – ossia uno stupido –  che un fanatico, spogliato da Mendoza di ogni aura mitica), e poi Franco con il suo contorno di spietati generali, e Manuel Azaña, ultimo e sconfortato presidente della Seconda Repubblica Spagnola.

Il risultato è una narrazione colta e appassionante, piena di colpi di scena e di avventure, punteggiata da materiali diversi (lettere, articoli di giornale, schede segnaletiche), che rivisita e manipola più generi (la spy story, il romanzo storico e quello sentimentale, il feuilleton che “aggancia” ogni capitolo al seguente, e soprattutto il giallo, nel quale Mendoza è maestro, come dimostrano i suoi polizieschi imperniati su Ceferino, investigatore lumpen a lungo confinato in manicomio e poi avviato alla professione di parrucchiere per signora), facendo uso di un umorismo scintillante e sottile, del grottesco, della parodia o di un’immediata comicità.

Per lo scrittore argentino Rodrigo Fresán, che di Mendoza è ammiratore entusiasta e che lo accosta per più ragioni (tra cui la levità, l’ironia e il desiderio di intrattenere) a Adolfo Bioy Casares, Città sospesa, Madrid 1936 è “una sorta di pazzo vaudeville e di poliziesco stravagante, adatto a ogni nazionalità e interesse”. Non si può negare, tuttavia, che al di là della superficie brillante e dell’intreccio avvincente, la visione di Mendoza sia improntata a un pessimismo consapevole e profondo, che l’umorismo può temperare, senza negarlo o nasconderlo. Per capirlo davvero il lettore dovrà arrivare alle ultime righe, quelle in cui, parlando del quadro Las meninas, Whitelands lo descrive come una scena quotidiana in cui appaiono bambine, serve, nani, animali e il pittore stesso, ma, nello sfondo, le immagini dei sovrani riflesse nello specchio ci ricordano l’esistenza di un potere che, inavvertito e quasi invisibile, controlla ogni cosa.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018