venerdì 20 ottobre 2017

Da leggere: Emiliano Monge

Emiliano Monge


Terra bruciata, un viaggio all’inferno 

Una radura circondata da tronchi colossali con radici come arterie, su cui planano i suoni emessi dalla selva nella sua ora più buia, e, al centro dello spiazzo, un gruppo di fuggiaschi che tra un attimo smetteranno di essere persone per diventare merce in vendita: mano d’opera gratuita, sicari arruolati nelle guerre dei narcos, schiave dei bordelli, carburante per un motore che non si ferma mai, alimentato dalla speranza di quelli che tentano di fuggire dalle guerre, dalla miseria estrema, dalla terra bruciata che li circonda e li assedia.

Ed è proprio Terra bruciata (La Nuova Frontiera, pag. 317, e. 19,50) il titolo del romanzo con cui il messicano Emiliano Monge ci proietta di colpo, con un incipit quasi rovente, nella foresta messicana attraversata dai migranti clandestini centroamericani (arrivano dall’Honduras, dal Guatemala, da El Salvador, dal Nicaragua) per raggiungere la frontiera con gli USA, e che a migliaia vengono traditi da chi li guida, consegnati ai trafficanti e poi “spezzati” con stupri e torture, per garantirne la futura docilità. Una tragedia nota che, tuttavia, il Messico si rifiuta di guardare, di vedere, limitandosi ad affrontare il problema con deportazioni e centri di detenzione che non hanno nulla da invidiare a quelli libici, altrettanto “invisibili” agli occhi dell’Europa.

Il silenzio e l’indifferenza, tuttavia, non sono impenetrabili né assoluti, come dimostrano le ottime inchieste di giornalisti coraggiosi. Ma in un paese come il Messico, che raramente può e vuole eludere il peso di una violenza costante e pervasiva (arrivando perfino a banalizzarla, come nel caso della ormai scontata narcoliteratura), anche la narrativa ha affrontato le storie dei migranti centroamericani, con alcuni testi diversissimi tra loro per struttura e stile; e il più recente è appunto quello di Emiliano Monge, che, vicino ai quarant’anni e dopo due romanzi e due raccolte di racconti, si dimostra, con un libro “destinato a restare” (così scrive sulla rivista Letras Libres l’abitualmente severo Christopher Domínguez Michael), un attendibile erede della grande letteratura messicana e latinoamericana.

Quello che ci consegna, dopo anni di ricerche e la consultazione di innumerevoli fonti, non è, come forse ci si potrebbe aspettare, un racconto di taglio testimoniale e rigidamente realistico, ma un ambizioso e complesso esercizio narrativo con forti echi allegorici e metaletterari (Dante, il mito, la tragedia elisabettiana) e percettibili, illustri influenze (Sada e Rulfo, Gardea e Revueltas), articolato attorno a una vicenda che si svolge in settantadue ore colme di una violenza quasi insostenibile. La voce narrante, che osserva ogni cosa, sembra offrirsi come mediazione tra chi legge e il punto di vista di coloro che “vengono scritti”, in primo luogo i trafficanti, protagonisti assoluti della storia: Epitaffio e Stele, cresciuti nell’orfanotrofio di Padre Loculo, che accoglie i bambini rapiti ai migranti, li marchia e li alleva per farne membri efficienti dell’organizzazione. E poi Funerale, Mausoleo, Ossaria, Cimitera, membri della banda, e i vecchi fratelli che da sfasciacarrozze sono diventati “sfasciacadaveri”, e i due ragazzi della selva, guide infedeli e indifferenti, e i militari complici e corrotti.

Ognuno dei trafficanti si nasconde dietro soprannomi cimiteriali che rimandano alla tradizionale cultura messicana della morte, ma segnalano anche la loro natura di traghettatori infernali, spassionatamente crudeli, che attraversano la foresta-Stige, le montagne, il deserto, con un carico di anime morte chiuse in enormi furgoni e private di tutto, della patria, del passato, del nome. Una massa indistinta e innominata di corpi ridotti a macchine da lavoro, ingranaggi e pezzi di ricambio, ma non privi di voce, o meglio di tante piccole voci (sparse in corsivo per tutto il testo, sono le testimonianze dei migranti sopravvissuti, raccolte dalle organizzazioni umanitarie che cercano di soccorrerli), una sorta di coro greco cui risponde, a volte, il rapidissimo contrappunto di uno o due versi tratti dalla Divina Commedia. Un dialogo che potrebbe apparire artificioso e forzato, e che invece risulta credibile e quasi inevitabile, nell’Inferno in cui tutti si muovono, con gesti resi sempre uguali dalla coazione a ripetere dei dannati.

A nessuno di loro è stato consentito di vivere un altro destino, la violenza li ha modellati per procacciare materie prime (mani, muscoli, schiene, organi genitali, carne da usare) e muoversi con efficienza secondo un rituale prestabilito nel quale, però, si aprono continue falle: il tradimento, la vendetta, l’imprevisto. E la falla più grande è la storia d’amore tragicamente qualunque (e proprio per questo surreale) che è l’ossatura del romanzo: quella di Epitaffio e Stele, separati di continuo dai viaggi per le “consegne” e di continuo torturati dal cellulare che, tra foreste e montagne, non riesce a metterli in comunicazione, crea equivoci, suscita disperazioni. Due mostri amanti, di bruttezza e ferocia assoluta, ma che si amano da sempre e alla follia, non possono parlarsi e corrono verso un finale shakespeariano, per diventare vittime che è impossibile compatire.

Intorno a loro e alla demoniaca corte che li circonda, l’autore tesse la rete di un linguaggio e uno stile ammirevoli, inventandosi un’oralità che, come quella rulfiana, non esiste (è Monge stesso a farlo notare) e risulta in realtà estremamente letteraria, pronta a sovvertire l’ordine consueto della frase, a ribattezzare più volte i personaggi in funzione delle loro trasformazioni e stati d’animo, e ad azzardare toni lirici ed epici che suscitano immagini sfolgoranti e sinistre.

Inevitabilmente, e nonostante l’eccellente lavoro della traduttrice Natalia Cancellieri, nella versione italiana qualcosa si perde, ritmo e suono si alterano o si affievoliscono, come di solito accade quando si trasferisce in un’altra lingua una scrittura così densa e originale. Ma poco importa, perché questa danza macabra, così simile a tante altre in corso attorno a noi, conserva in ogni modo una forza evocativa capace di reinventare la realtà, per mostrarcela meglio.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017