giovedì 10 agosto 2017

Da leggere: Liliana Colanzi

Liliana Colanzi


Liliana Colanzi, la parola è una tigre

“Diceva mio nonno che ogni parola ha il suo padrone e che una parola giusta fa tremare la terra. La parola è un fulmine, una tigre, un uragano, diceva il vecchio guardandomi con rabbia, mentre si serviva alcol di farmacia, ma guai a chi usa le parole alla leggera”.

Così comincia Chaco, uno degli otto racconti racchiusi in Il nostro mondo morto (gran vía, e. 13,50), uno dei libri più belli che ci siano arrivati quest’anno dall’America latina: centoventi pagine assai ben tradotte da Olga Alessandra Barbato, otto storie originali e potenti, e infine la scrittura di una giovane autrice, Liliana Colanzi, che sulla “parola giusta” deve aver lavorato a lungo, riuscendo ogni volta a trovarla e a usarla con estrema consapevolezza.

Nata nel 1981 proprio nel Chaco, a Santa Cruz de la Sierra, nella regione in cui più numerose erano le leggendarie misiones dei gesuiti, Colanzi ha finora pubblicato due libri di racconti, anzi due e mezzo, perché La Ola, uscito in Cile nel 2014, unisce a quattro testi della sua prima raccolta, Vacaciones permanentes, altri all’epoca inediti e che ora sono confluiti in Il nostro mondo morto: un gioco involontario ma significativo, questo del filo che lega un libro all’altro, come a testimoniare la coerenza e la compattezza di un discorso narrativo, ma anche a segnalarne l’evoluzione.

Nel suo secondo libro, già tradotto negli USA e in Francia, Colanzi riprende e sviluppa alcune sue costanti (le rivolte dell’adolescenza, le madri spietate, la fuga, la lontananza, la morte, l’alterità indigena, il legame con l’infanzia, il contrasto tra il mondo urbano e quello rurale), intrecciandole a temi nuovi e costeggiando spesso un fantastico asciutto e inquietante. L’esplorazione della violenza, della marginalità e di una strisciante follia si incarna in bambini, indios, vagabondi, personaggi che interpellano invano una realtà vacillante, mentre miti, sogni e visioni riemergono in momenti e luoghi imprevedibili come un viaggio in bus o in taxi, o in mezzo al traffico cittadino, e si confondono con immagini e profezie del futuro.

La quotidianità assume sfumature sinistre, soprannaturali: un bar parigino ospita un cannibale; nel buio di un cinema, un diabolico “occhio” assiste alla prima, desolata eppure esplosiva esperienza sessuale di una ragazza; nella sua piccola bara, un cadavere infantile continua (forse) a respirare; una invisibile Onda, perpetuamente in agguato, scatena nel gelo del nord un’epidemia di suicidi e insegue la protagonista fino alla città tropicale dove suo padre sta morendo; in un’astronave approdata su Marte, una ragazza consuma la sua crisi sentimentale e rimpiange la rinuncia alla maternità.

Di racconto in racconto, l’autrice azzarda con successo una doppia ibridazione; la prima è quella tra generi – la fantascienza, il gotico, le storie del terrore – rivisitati con perizia, e a volte solo evocati con lievi tocchi e immagini di grande suggestione (la ragazzina india abbagliata in pieno deserto dalla rivelazione dell’universo, tra omini verdi e cerimoniosi, oppure la giovane scrittrice alla finestra, che intravede i suoi personaggi al di là dal vetro). Il secondo “innesto”, invece, è quello di una recuperata “bolivianità” sul cosmopolitismo comune a tanti scrittori latinoamericani sradicati ed erranti (la stessa Colanzi, che ha studiato a Cambridge e alla Cornell University, vive e lavora negli Stati Uniti, come suo marito Edmundo Paz-Soldán o come i bravissimi Rodrigo Hasbún e Giovanna Rivero, per restare in ambito boliviano), e comunque nutriti di cinema, letture e musica a diffusione planetaria.

“Non ho avuto piena coscienza di quello che significava essere boliviana o latinoamericana, finché non ho lasciato il paese. Vivere fuori dalla Bolivia mi ha aiutato a volgere lo sguardo su atteggiamenti e convinzioni che erano nell’aria mentre crescevo e che nessuno metteva in discussione (il razzismo, il classismo, il machismo), e a osservarle con stupore, ma anche con grande curiosità”, ha detto Colanzi in un’intervista, e i frutti di questo sguardo sono ben evidenti in "Il nostro mondo morto", in cui affiora una Bolivia diversissima da quella di cui ci viene abitualmente rimandata l’immagine, sospesa tra i luoghi comuni di perdute mitologie rivoluzionarie, del sottosviluppo e dell’attuale populismo “caudillista”.

Colanzi non intende presentare la Bolivia a chi non la conosce, né denunciare o analizzare esplicitamente i suoi problemi e le sue contraddizioni, e meno che mai seguire le orme del canone letterario nazionale (il suo background è, del resto, sofisticato quanto ampio, e va ben oltre i confini boliviani), nonostante l’aperto omaggio a Jaime Saenz che conclude l’ultimo racconto. Si avvicina al proprio paese, piuttosto, come a un magnifico serbatoio colmo di culture, lingue, storie, cosmogonie, piani temporali che si sovrappongono e si intersecano, e al quale si può attingere all’infinito, per estrarne materiali che vanno a mescolarsi con quelli della più “globale” contemporaneità.

È così che Colanzi ci offre, oltre a una fabulazione suggestiva e costruita con stupefacente sicurezza, l’obliquo, insolito ritratto di una Bolivia plurale, fatta di voci e tradizioni diverse, che è parte di lei: un paese tutto interiore legato a incubi, nostalgie, esperienze e memorie intime e personali, ma visto con sufficiente distacco da consentire la presenza di percettibili coloriture politiche. E, non ultimo tra i pregi del libro, Il nostro mondo morto è una tra le prove letterarie di questi ultimi anni che più apertamente ci spinge a una riflessione su che cosa significa, oggi, essere uno scrittore latinoamericano. Anche se, va detto, questa era forse l’ultima tra le intenzioni di Liliana Colanzi. 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017