mercoledì 10 maggio 2017

Da leggere: Nona Fernández

Nona Fernández


Le anime in pena di Nona Fernández

“Percorro un fiume scuro. Un nastro sporco che mi trascina lentamente, mi culla con amore e mi invita a dormire e abbandonarmi del tutto al suo cammino fecale. Gabbiani smarriti mi seguono e si posano ai miei piedi scavando nelle scarpe rotte, beccandomi le dita, le unghie sudice. Sulla riva un ubriaco lancia una bottiglia vuota che mi sbatte contro e va in frantumi. I vetri raggiungono il viso, un filo di sangue mi scorre sulla fronte. Non è vero che i morti non sentono. Potrei elencare ogni singola cosa che questa carne in decomposizione continua a percepire”.

A raccontare il viaggio della cassa scoperchiata in cui giace un corpo ormai disfatto, e tuttavia senziente, è la protagonista di Mapocho (gran vía edizioni, pag. 210, e. 16; la bella traduzione è di Stefania Marinoni), il complesso romanzo che ha rappresentato, nel 2002, l’esordio narrativo di Nona Fernández, nata nel 1971 a Santiago de Chile e considerata una delle autrici latinoamericane più interessanti della sua generazione. Com’è evidente sin dalle prime righe, la voce appartiene a una ragazza morta, la Bionda, trascinata via dal fiume che taglia in due la capitale cilena: una voce che lascia subito il posto a quella di un narratore impersonale, pronto, nelle ultime pagine, a farsi sostituire da un’altra ombra senza pace, quella dell’Indio, il fratello della Bionda.

La loro storia parla di un esilio condiviso, di un ritorno obbligato, di un amore incestuoso, di terribili perdite (quella del padre Fausto, che i due credono ucciso dai militari golpisti, e quella del proprio paese) e, soprattutto, di altrettanto terribili inganni, che si identificano con il tradimento paterno: perché Fausto in realtà è ancora vivo e, complice del regime, ha accettato di riscrivere la Storia e di disegnare un’identità nazionale a una sola dimensione, bianca, eroica, civilizzatrice. L’enigma familiare che l’Indio e la Bionda cercano di sciogliere diventa, allora, un viaggio allucinato che salda il presente a epoche remote: tutto l’arco della storia cilena, dall’arrivo dei colonizzatori fino alla post-dittatura, viene scomposto e disarticolato grazie a immaginosi, continui “si dice” che favoriscono l’emergere di detriti di ogni genere, una montagna di spazzatura sepolta o nascosta, in cui sono inclusi innumerevoli corpi massacrati e variamente smaltiti. E anche lo spazio urbano è in qualche maniera rimodellato da questa versione “sporca”, sessuata e oltraggiosa della Storia, dominata dal desiderio, che fa di Santiago una città-personaggio, un corpo pieno di ferite, composto da strati diversi e percorso da un fiume-vena.

Un romanzo potente, originale e insolito, una fabulazione irridente e furibonda, con accenti volutamente melodrammatici, scatologici, mitici e leggendari, e infiniti riferimenti testuali: per esempio l’immagine della nazione come casa, allegoria che rimanda al capolavoro di José Donoso, Casa de campo; le ombre inquiete dei protagonisti, a lungo inconsapevoli della propria morte, che ricordano il Pedro Paramo di Juan Rulfo o La amortajada della cilena Maria Luisa Bombal, citata in epigrafe; le leggende raccolte da Eduardo Galeano in Memoria del fuoco, riflesse nei racconti di Fausto ai figli bambini; certi lampi del linguaggio, che si rifanno alle invettive fiorite di Pedro Lemebel.

A partire da Mapocho, Fernández ha sviluppato un progetto narrativo profondo e coerente, arricchito negli anni da titoli in cui vengono riproposte alcune costanti, come la memoria collettiva filtrata attraverso quella più intima e personale, l’accumularsi dei brandelli di una realtà trasfigurata, la rivisitazione del passato a partire dai margini, la passione per tutto quanto è ignorato e rimosso, la ricerca di risposte agli interrogativi sorti durante un’infanzia e un’adolescenza vissute sotto la dittatura, ma anche nel corso di una transizione alla democrazia mai davvero conclusa. Il tutto filtrato attraverso una scrittura sempre più pulita, concreta e visiva, segnata dalla pratica teatrale dell’autrice (che è anche commediografa, attrice e regista) e la cui evoluzione è evidente negli altri suoi testi tradotti in italiano, ossia Space invaders e l’appena uscito Chilean Electric, racconti lunghi (o romanzi minimi) pubblicati da Edicola Edizioni, una delle nostre più piccole e curiose case editrici, che traduce scrittori cileni poco noti in Italia, ma davvero notevoli, come Alejandra Costamagna o Claudia Apablaza.

Entrambi i titoli, insieme ai romanzi di più ampio respiro come Fuenzalida, Av. 10 de Julio Huamachuco e il recentissimo La dimensión desconocida, sembrano comporre un ritratto sorprendente del Cile negli anni di Pinochet, visto dalla prospettiva di una memoria in movimento: qualcosa che Fernández insegue facendosi avventurosamente largo in una selva di immagini, ricordi, menzogne, impressioni, luci che si accendono all’improvviso e ombre così profonde che niente, se non l’immaginazione, riesce a penetrarle.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2017