mercoledì 23 novembre 2016

Da leggere: José Lezama Lima


José Lezama Lima



Lezama, un continente sconosciuto che si intravede in lontananza

“Leggo Paradiso a poco a poco, sempre più abbagliato e stupito. Un edificio verbale di ricchezza incredibile, o meglio, non un edificio ma un mondo di architetture in continua metamorfosi e, anche, un mondo di segni – suoni che si configurano in significati, arcipelaghi del senso che si fa e si disfa – il mondo lento della vertigine che gira intorno a quel punto intoccabile che si trova tra la creazione e la distruzione del linguaggio, quel punto che è il cuore, il nucleo del linguaggio”.

È in una lettera del 1967 alle sorelle, emigrate negli Stati Uniti sei anni prima, che José Lezama Lima riporta il lusinghiero testo del biglietto inviatogli da Octavio Paz per ringraziarlo dell’invio del romanzo uscito nel 1966 (il primo capitolo era apparso nel ’49 sulla rivista Origenes), e accolto in modo meno positivo dalla cultura ufficiale cubana, in procinto di inabissarsi nelle infinite censure del Quinquenio gris, durante il quale anche Lezama, che aveva accolto la Rivoluzione con entusiasmo e da ragazzo aveva partecipato alle manifestazioni contro il dittatore Machado, sarebbe stato emarginato e ridotto al silenzio (solo negli anni seguenti la sua opera e la sua figura diverranno oggetto di una rivalutazione e di significativi omaggi).

Ma la pruderie governativa – Paradiso, con le sue scene erotiche più che esplicite, venne subito etichettato come pornografico – non fu l’unica causa di una perplessità a tratti irridente, anche se controbilanciata dai molti ed entusiastici giudizi di illustri estimatori stranieri, da Paz a Cortázar a Ribeyro. Il fastidio, il rifiuto, nascevano piuttosto dalla presunta “illeggibilità”, dal linguaggio ermetico, dal mancato rispetto di qualsiasi convenzione narrativa, che connotavano il primo romanzo di un intellettuale ultracinquantenne, già noto per l’intensa attività culturale (attorno a Origenes, fondata nel 1944 e da lui diretta per dodici anni, si era raccolto un gruppo di artisti e poeti che influenzarono profondamente la pittura e la letteratura cubana del tempo), per l’opera poetica inaugurata vent’anni prima dall’ammaliante Muerte de Narciso e proseguita con quattro preziose antologie, e infine per i saggi originalissimi.

Se il poeta e saggista risultava inclassificabile e al di fuori di ogni canone, il romanziere appariva così esigente da far pensare alla prima frase di La expresión americana (raccolta di saggi con cui Lezama aveva sovvertito, nel 1957, la tradizione consolidata del pensiero americanista), ovvero: Solo il difficile è stimolante. Quanto difficile e stimolante sia ancora oggi Paradiso testo che esige pazienza, ma che sprigiona seduzioni tali da indurre il lettore a immergersi in acque profonde, come suggeriva Julio Cortázar – i lettori italiani potranno riscoprirlo grazie a una nuova edizione del romanzo, proposta da Sur (pag. 750, e. 25) in coincidenza con il cinquantenario della prima uscita in lingua originale; la traduzione, corredata di nutrite appendici, è la stessa del 1995, firmata da Glauco Felici per Einaudi: l’unica attendibile, in effetti, perché condotta sul testo rivisto nel 1988 da un gruppo di studiosi cubani guidati dall’origenista Cintio Vitier, cui il confronto con il manoscritto originale permise di eliminare le centinaia di errata che hanno accompagnato la storia editoriale di Paradiso e le traduzioni in lingue diverse.

Nella nota finale, Felici fa presente con umiltà che il suo lavoro (meditato e accuratissimo) presenta “insormontabili imperfezioni” e offre al lettore solo “un’ipotesi di avvicinamento al testo lezamiano”, riconfermando la difficoltà di una scrittura che oppone al traduttore una tenace resistenza. Difficile, dunque, il romanzo; ed ermetico, a tratti quasi indecifrabile. Ma supremamente stimolante, proprio per via dello spaesamento provocato da un’apparente mancanza di coordinate, che consente di evocare l’ironica metafora del naufragio cara a Ortega y Gasset (insieme a Maria Zambrano, un punto di riferimento costante per Lezama): un naufragio dal quale ci si salva perché “come il pesce può naturalmente nuotare, l’uomo può naturalmente pensare”.

Il mare lezamiano, quel Paradiso che è stato via via accostato – con un certo fastidio da parte dell’autore, che giustamente si sapeva unico – alle opere di Proust, di Joyce, di Musil, è composto da quattordici capitoli divisi in due parti: la prima racconta l’infanzia e l’adolescenza del protagonista José Cemí, figlio asmatico e malaticcio, come Lezama, di un alto ufficiale dell’esercito cubano morto troppo giovane, e di una madre adorata che per José, espulso dal paradiso dell’infanzia e destinato a entrare in quello della poesia, rappresenterà una sorta di Beatrice; proprio come Lezama, inoltre, Cemí è un solitario che legge avidamente e cresce in una famiglia di sole donne, colte e indipendentiste, devote al culto di Martí e della buona tavola. E se nei primi quattro capitoli si condensano ricordi d’infanzia di sapore autobiografico, nei successivi un salto temporale conduce alle storie dei genitori, dei nonni, dello zio morto precocemente: vite piene di presagi che annunciano le prove cui José dovrà sottostare. E poi la scuola, la scoperta dell’eros attraverso gli espliciti accoppiamenti senza distinzioni di sesso di un compagno dal pene leggendario: una fabulazione iperbolica e ironica, ben diversa dalle discussioni storico-filosofico-morali sull’omosessualità e sull’originaria androginia del genere umano, che il protagonista affronterà nella seconda parte del romanzo, dedicata agli anni dell’università e al legame con Foción e Fronesis (l’uno assennato ed eterosessuale, l’altro inutilmente innamorato dell’amico), fino alla comparsa della misteriosa figura di Licario, guida e padre spirituale, che aprirà a José la via del sapere poetico (un percorso propiziato, nel romanzo postumo ed incompiuto Oppiano Licario, dall’unione sensuale e mistica con Ynaca Eco, la sorella del maestro). Il tutto sullo sfondo di un’isola e di una città dalla quale lo scrittore si allontanò brevemente solo due volte, e che viene descritta secondo il più puro metodo lezamiano, cioè rileggendo ogni cosa alla luce dell’imago che definisce la realtà (non il mondo com’è, dunque, ma come lo ricrea, lo rivela o lo orienta l’immaginazione).

Popolato da oltre duecento personaggi, il romanzo adotta repentini e inaspettati mutamenti di luogo, non rispetta la successione temporale degli eventi, sostituisce di punto in bianco la voce narrante (ma riserva all’autore il ruolo di demiurgo, e a buon diritto, visto che i personaggi parlano e pensano come lui, sono tutti Lezama Lima), inserisce aneddoti o digressioni sui più diversi argomenti, spesso in forma di dialoghi platonici o dibattiti memori della tradizione medioevale, e infine abbatte le dighe della logica con un fiume di metafore, simboli, sogni, allucinazioni, sensazioni tattili, visive, olfattive, elementi di una festa del corpo che, tuttavia, non ignora mai la presenza della morte, e spesso la corteggia. Come un albero i cui rami continuano a espandersi in tutte le direzioni, Paradiso appare inarrestabile, quasi fuori controllo, composto com’è da magistrali frammenti che continuano a sovrapporsi, nonché avvolto nelle spire di un linguaggio denso, proliferante e ricco di neologismi e invenzioni; ma la fastosa sovrabbondanza che per Lezama era quasi un dogma, e che lo ricollega al barocco immaginoso della “espressione americana” (così lontano da quello ben meditato di Alejo Carpentier, altro grande, ma ben più disciplinato, esponente della letteratura cubana di quegli anni), non deve ingannare: in realtà, è lui stesso a dirlo, il romanzo è un punto di arrivo che “ordina il caos, lo distende sotto le nostre mani perché possiamo accarezzarlo”. L’intero universo di Paradiso è retto da quello che Lezama chiama il suo Sistema Poetico, e che è andato elaborando per anni attraverso le opere precedenti: versi mirabili in cui trovano spazio idee filosofiche e religiose, pagine e pagine di saggistica che, per profusione di immagini e visioni, confinano con la narrativa, il tutto cementato da metafore che alimentano una “immaginazione retrospettiva” capace di imporsi al ricordo, alla realtà, alla Storia.

Tutto questo converge verso Paradiso, che diventa così il culmine, l’espressione compiuta di una poetica capace di trasformare personaggi ed episodi in pure funzioni al suo servizio, e che attinge al sapere strabordante di un lettore autodidatta (Lezama, così attratto dalla letteratura, dovette laurearsi in legge per mantenere se stesso e l’amatissima madre) totalmente immerso nella cubanità criolla e non immemore dell’eredità spagnola (Gongora e Cervantes innanzitutto), ma pronto a far sue le più remote tradizioni culturali, dai precolombiani alla Grecia all’Oriente all’Europa. A proposito di questa inclusione avida e senza limiti e dell’eterogenea erudizione che ne è derivata (nel romanzo trova posto ogni cosa, dal misticismo al mito, dalla teologia ai bestiari medioevali, dalla filosofia alla gastronomia, dalla letteratura novecentesca a quella classica) molti hanno rilevato le inesattezze di Lezama, la sua noncuranza citatoria, la fantasiosa ortografia di nomi e parole straniere.

Piccolezze irrilevanti, dice Julio Cortázar nel suo saggio Per arrivare a Lezama Lima (se ne può leggere un estratto nella edizione Sur di Paradiso), rispetto alla profondità e alla magnificenza di un romanzo epocale e controcorrente. E aggiunge che questo scialo di sapere impreciso ed eterodosso dimostra la seducente ingenuità di Lezama, la sua libertà esplosiva mai paralizzata da timori accademici. Ma viene da pensare anche a un’altra lettura, quella di Severo Sarduy, scrittore cubano che si è proposto a suo tempo come l’erede naturale di uno scrittore senza eredi qual è Lezama, eleggendolo a caposcuola di un’avanguardia neobarocca che il “maestro”, probabilmente, non avrebbe del tutto apprezzato. È proprio a Sarduy, comunque, che si devono pagine acute sugli errori e le storpiature sfuggiti alla sapienza lezamiana: perché non di errori e storpiature si tratta, dice Sarduy, ma di una appropriazione, di una deformazione funzionale al suo narrare, alla sua lingua sensuale, tattile, non aliena al grottesco, all’eccesso e alla parodia tipici del barocco. Su chi dei due abbia ragione si potrebbe, è ovvio, discutere all’infinito, e, con ogni probabilità, inutilmente. Anche perché, come ha osservato Sarduy in anni lontani, ancora oggi “Lezama è un continente sconosciuto che si comincia appena a intravedere in lontananza”.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016