mercoledì 16 marzo 2016

Da leggere: Juana Bignozzi


Juana Bignozzi




Juana Bignozzi, malinconica e indignata

“In Argentina, come in quasi tutto il mondo, gli anni ’60 furono assai ricchi di novità di ogni genere. All’epoca la politica e la cultura venivano considerate e si presentavano a molti giovani intellettuali come le due facce di una stessa medaglia. In tutti i campi, alla gioventù toccò un ruolo da protagonista, ben più di quanto accada attualmente. La possibilità di un cambiamento profondo della società, e di conseguenza della vita, sembrava molto più vicina che in qualsiasi altro periodo”. Così scrive il poeta e critico Jorge Fonderbrider in un saggio che ripercorre le vicende della poesia argentina dagli anni 60 ai 90, e, nel dar conto del fervore e della varietà che connotavano il panorama culturale sesentista, fa innanzitutto riferimento a El Pan Duro, associazione di giovani poeti fondata da Juan Gelman, che prevedeva l’autopubblicazione e interventi nelle strade dei quartieri operai, nelle fabbriche o nei teatri: un’avventura che durò meno di un decennio e fu tuttavia sufficiente a identificare il gruppo come principale portabandiera della poesia politica (il nume tutelare di Gelman era il comunista Raúl González Tuñón, con i suoi combattivi poemas civiles), fondata su una lingua semplice e accessibile e su versi liberi e irregolari, fatti per la lettura ad alta voce.

Nonostante gli intenti comuni e le indubbie coincidenze di stile e di linguaggio, però, El Pan Duro non era poi così omogeneo, come testimonia la presenza eterodossa di Juana Bignozzi, entrata a farne parte nel 1959 (aveva allora ventidue anni), ma senza rinunciare alla spiccata autonomia estetica, personale e politica che la accompagnerà fino alla morte, avvenuta nell’agosto del 2015. La sua non è, infatti, una poesia popolare e di esplicita propaganda, secondo il canone della “generazione del ’60”, e si distingue piuttosto per le scelte lessicali raffinate, la sintassi tutt’altro che lineare, la levigata musicalità, il continuo intreccio fra autobiografia e militanza, le allusioni colte e i riferimenti alla pittura, vissuta come una sorta di lente attraverso la quale guardare il mondo. E soprattutto, come l’autrice non mancava di sottolineare, non si tratta di poesia politica in senso stretto, ma di “poesia ideologica”, fondata sui miti e gli ideali trasmessi da genitori anarchici divenuti comunisti negli anni del peronismo, esponenti di una “aristocrazia operaia” con la casa piena di libri nonostante l’estrema povertà, e la cui unica figlia era destinata a una vita lontana dai ruoli femminili tradizionali (“Nessuno mi ha mai calpestato. Non sono nata per essere calpestata. Nessuno nella mia famiglia mi ha mai detto di dire sì”, raccontò Juana in un’intervista).

Grazie a questo retroterra familiare, sempre evocato nei suoi versi, Juana Bignozzi divenne un’intellettuale coerente e rigorosa, e, pur avendo lasciato il partito comunista, “che per non aver letto la storia del mio paese/si è trasformato in polvere non innamorata ma morta”, conservò un fermo rispetto per il proprio passato e seppe proiettarsi verso il futuro, convinta che l’enormità della disuguaglianza contenesse inevitabilmente lo spazio per un cambiamento radicale.

Del tutto sconosciuta in Italia, l’opera della Bignozzi appare oggi nella nostra lingua grazie a Stefano Bernardinelli, traduttore e curatore di Per un fantasma intimo e segreto (Lietocolle, pag. 131, e. 13), antologia che attinge alle raccolte pubblicate tra il 1967 e 2014, a cominciare dal memorabile Mujer de un certo orden, per finire con Las poetas visitan a Andrea del Sarto, in cui il pittore racconta la propria storia di ragazzo povero in un lungo e stupendo monologo, e l’Angelo dell’Annunciazione del Petit Palais avignonese, disposto a rivolgersi anche alle ragazze della periferia industriale, proclama: “perduto il destinatario e svuotato il messaggio/continuerò ad annunciare perché fui mandato in questo mondo per/inquietare e nessuno mi potrà zittire”.

“Malinconica e indignata”, come la definisce Beatriz Sarlo, eppure pungente e divertita, in patria Juana Bignozzi è stata per molto tempo un’autrice segreta, forse per via dei lunghi periodi di silenzio e dei trent’anni trascorsi a Barcellona, dove si era stabilita nel 1974 insieme al marito (un esilio prima politico e poi economico), guadagnandosi la vita come stimatissima traduttrice dall’italiano e dal francese. La riscoperta da parte di giovani poeti e di lettori entusiasti è avvenuta dopo la pubblicazione di La ley tu ley (Adriana Hidalgo, 2000), che include buona parte delle sue poesie, e il definitivo ritorno a Buenos Aires ha consolidato l’ammirazione per una donna più che mai formidabile e per i suoi ultimi versi, illuminati dalla “luce dell’età” e da uno sguardo che, scrive Bernardinelli, delinea “il ritratto di una generazione, delle sue sconfitte, della problematica sopravvivenza delle sue idee”, ma appare più riflessivo che nostalgico e affronta in modo meravigliosamente ironico la banalità quotidiana di un presente senza utopie. Una voce unica, insomma, che finalmente anche i lettori italiani potranno ascoltare, per un primo incontro con quella che viene considerata la migliore poetessa argentina del secondo ’900.

 

Questo articolo è stato pubblicato su Alfabeta nel marzo del 2016