mercoledì 14 dicembre 2016

Da tradurre: Copi


Copi



Copi, l’Ora dei Mostri





Quando, nel 1987, l’editore Jorge Herralde organizzò nel Palau de la Virreina di Barcellona un’ultima serata in onore di Raúl Damonte Botana (alias Copi, autore di fumetti e di teatro, di romanzi e di racconti, ma anche attore en travesti, costumista, regista), il festeggiato era morto da poco e la madre Georgina ne aveva già sparso le ceneri sulla spiaggia di Dieppe, dove le onde avevano esitato a lungo prima di portarsele via. E adesso, per una curiosa coincidenza, sono proprio le sale della Virreina a ospitare La hora de los monstruos, ossia la prima antologica mai dedicata a Copi, nato a Buenos Aires nel 1939, cresciuto in Uruguay dove la sua famiglia si era rifugiata per ragioni politiche, naturalizzato francese e vissuto a Parigi per quasi trent’anni: una mostra ideata e curata da un altro argentino “lontano da casa”, Patricio Pron, eccellente scrittore che da tempo vive a Madrid e che a Copi ha dedicato numerosi scritti e una ponderosa tesi di laurea.

 



Inaugurata il cinque novembre, in febbraio la mostra si trasferirà a Buenos Aires per poi approdare in Francia, e rappresenta senza dubbio un piccolo avvenimento sia per i lettori che hanno amato i fumetti apparsi su Le Nouvel Observateur, Harakiri, Charlie Hebdo, Libération, Linus, e raccolti in album pubblicati da editori diversi, sia per coloro che conoscono e apprezzano la vasta opera teatrale di Copi. Oltre alle prime vignette antiperoniste uscite su Tribuna Popular (il giornale fondato e diretto da suo padre, militante radicale), agli originali dei comics, alle foto inedite scattate dal fratello Jorge e a una bacheca piena di albi, volumi e riviste, La hora de los monstruos offre infatti, proiettati su un grande schermo, rari spezzoni di spettacoli in cui Copi monologa nelle vesti del suo alter ego Loretta Strong, dialoga con uno dei suoi tanti animali feticcio (un topone di stoffa), ed esce, in differenti costumi femminili, da un frigo dipinto di blu: un travestitismo, il suo, che non ha nulla della femminilità parodica, seducente e perfino sensuale cui ci aveva abituato Paolo Poli, ma che inventa piuttosto provocatorie, grottesche figure intersessuali.

E non mancano curiosità come i provini per lo spot dell’acqua Perrier, che Copi interpreta nelle vesti di una domestica dalle colossali sopracciglia, o i filmati delle interviste che ce lo rivelano come un uomo piccolo, esile, garbato, con quel tocco di spontanea eccentricità che gli veniva da una famiglia illustre e bizzarra, segnata dal genio imprenditoriale e megalomane del nonno Natalio Botana, fondatore del leggendario giornale Critica, e dalla pugnace stravaganza della nonna Salvadora, femminista e anarchica (fu lei a dargli il soprannome di Copi e a incoraggiarlo a vivere liberamente la propria sessualità).

Accompagnato in vita da un successo insolito per un’opera audace e spiazzante come la sua, Copi è stato poi quasi dimenticato, per venire infine riscoperto in Francia e in Spagna – non in Italia, purtroppo, dove quasi nulla di suo è reperibile in libreria –, come testimoniano le numerose riedizioni della sua strepitosa e inclassificabile narrativa (Anagrama l’ha raccolta in due preziosi volumi) e le molte messe in scena dei suoi copioni. E, dopo anni di silenzio distratto nei confronti di un autore che scriveva in francese e coltivava con il paese d’origine un rapporto contraddittorio e tempestoso, espresso in opere come Eva Perón e L’Internationale argentine, è stato finalmente scoperto anche in Argentina, grazie a un notevole lavoro critico cominciato da César Aira (colui che, secondo Pron, di Copi è il principale erede letterario), e continuato da studiosi diversi.

Ai testi che accompagnano la mostra si deve un intelligente commento del lavoro grafico di un artista accusato di “non saper disegnare” – mentre nelle sue strisce il minimalismo e “la mancanza di elaborazione e di stabilità”, sottolinea Pron, sono talmente funzionali alla narrazione da dimostrare il contrario – che aveva rinunciato a tutti i canoni tradizionali del fumetto, come la composizione grafica della vignetta, privata sia del riquadro e del balloon, sia degli sfondi e delle ambientazioni che collocano nello spazio e nel tempo i personaggi.

Al di là di eventuali “parentele” riscontrabili in una sorta di estetica della bruttezza e nello scarso rispetto per le convenzioni del comic, che lo avvicinano a Reiser e Wolinski (dei quali, però, l’argentino non possedeva le accentuate connotazioni politiche e satiriche), o in un segno esile ed essenziale che evoca Saul Steinberg, ma anche un James Thurber ben più eversivo, il fumetto di Copi resta personalissimo e, soprattutto, rivela l’interdipendenza tra i diversi mezzi di espressione usati da un artista totale: le sue strisce, come la sua prosa, hanno un ritmo e un andamento teatrale; i personaggi, i dialoghi, la lingua (quel francese reinventato da un argentino che afferma di aver dimenticato lo spagnolo, ma infila qua e là termini criollos e attinge ad altri idiomi, storpiandoli senza rimorsi), le situazioni, i temi, sono gli stessi nella narrativa, nei fumetti e sul palcoscenico.

Le donne sedute e gli animali parlanti, gli orribili bambini e le vecchie sordide, i serial killer in veste di uccello e di pretino lussurioso, le lumache saccenti, i polli cinici, le puttane annoiate e i lupi fornicatori che vanno a letto con nonne e nipoti (ma non con la madre, perché “non è nella storia”), i personaggi consapevoli della propria natura fittizia e pronti a discuterla con l’autore, o a chiamarsi al telefono da una pagina all’altra del giornale su cui sono stampati: tutto è parte di una poetica iconoclasta ed esilarante che deride e demolisce la quotidianità borghese, cancellando ruoli e identità, affermando con naturalezza l’esistenza di una fluida pansessualità e manovrando i congegni di un perfetto teatro dell’assurdo, tra dialoghi pieni di pause silenziose e gesti comicamente crudeli, la cui improvvisa, quasi infantile violenza non è affatto mascherata dalla delicatezza noncurante del segno.

Ha insomma ragione Damian Tabarovsky quando scrive che “l’opera di Copi funziona come una resistenza alla cultura normalizzata, al prestigio, all’opinione benpensante. Resistenza, quasi in senso psicoanalitico, come una barriera che si oppone alla repressione del mercato editoriale e all’accettazione sterilizzata della differenza, della diversità e della stranezza. Copi resiste alla cooptazione di quella forma di morte sublimata che è il prestigio. Ma anche, e soprattutto, funziona come forza d’urto contro un’altra tentazione, quella di canonizzarlo come martire dell’eccentricità, dell’anomalia, dell’underground; resiste all’idea stessa di trasformarsi in autore di culto (luogo comune del quale dobbiamo sospettare altrettanto o di più)”.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre del 2016

sabato 3 dicembre 2016

Anniversari e addii: Marcos Ana


Marcos Ana



La casa senza chiavi di Marcos Ana

Il 24 novembre il Partido Popular spagnolo ha seppellito Rita Barberá, per ventiquattro anni onnipotente sindaco di Valencia, che, implicata in una grave trama di corruzione e imputata di riciclaggio, è stata colpita da un infarto improvviso. E mentre Rajoy e tutto il PP lamentavano il “linciaggio” e la “condanna a morte” da parte delle “iene” (ossia i giudici, l’opposizione e i media), di una “donna generosa, una persona eccellente”, quasi nelle stesse ore se n’è andato in silenzio qualcuno che di Rita Barberá era l’opposto, che ha rappresentato con straordinaria dignità un’altra Spagna e che, in un mondo in cui la memoria è ormai smaterializzata, ridotta a pura convenzione celebrativa, continuava a incarnarla con un vigore capace di fonderla al presente e di restituirle senso. Se n’è andato a novantasei anni, il 24 novembre, Fernando Macarro Castillo, meglio noto come Marcos Ana, il nome con cui firmava i suoi versi: un militante comunista rimasto tenacemente tale, un poeta di valore, nonché il prigioniero politico rinchiuso più a lungo nelle carceri franchiste, dov’era entrato a diciannove anni per uscirne a quarantadue.

Figlio di poverissimi braccianti della zona di Salamanca, durante la guerra civile riuscì ad arruolarsi nell’esercito repubblicano, che lo rispedì a casa non appena scoperta la sua età (sedici anni), e poco dopo entrò nel Partito Comunista, diventando l’istruttore politico della Gioventù dell’Ejercito del Centro, almeno finché la Repubblica non venne sconfitta e gli italiani della Divisione Littorio lo fecero prigioniero. Accusato di omicidi che non aveva commesso, condannato a morte due volte e graziato perché minorenne, si ritrovò con sessant’anni di carcere da scontare, tra fame, torture e pestaggi. E fu in prigione che si trasformò in Marcos Ana, unendo il nome di suo padre, scomparso sotto le bombe, a quello della madre, morta subito dopo la seconda condanna del figlio. Con questo pseudonimo firmava i versi che aveva cominciato a scrivere di nascosto e che inviava all’esterno tramite i compagni rilasciati, che spesso li imparavano a memoria per non farsi trovare addosso quei pezzi di carta compromettenti.

In carcere, insieme ai compagni aveva creato una sorta di giornaletto clandestino, e con loro leggeva e discuteva libri quasi sempre proibiti (perfino il Don Chisciotte lo era), ottenuti fortunosamente. In quegli anni durissimi divenne, lui che a scuola c’era andato ben poco, un poeta amato da Alberti e da Neruda, che insieme ad Amnesty International si batterono per la sua liberazione, arrivata infine dopo ventitré anni. La libertà, però, Marcos dovette viverla in esilio fino alla morte di Franco, viaggiando da un paese all’altro, continuando a lavorare per il partito e a scrivere, aggiungendo ai suoi Poemas desde la carcel (pubblicati in Brasile nel 1960), altre raccolte di versi, e soprattutto uno splendido libro di memorie, Decidme cómo es un árbol. Memoria de la prisión y la vida (2007), di cui esiste anche una versione italiana a cura di Chiara de Luca (Crocetti 2009), e i cui diritti sono stati comprati da Almodovar, deciso a farne un film.

Si sa che, quando parlava della sua età, Marcos Ana usava ringiovanirsi, ma non per civetteria: sottraeva ai suoi anni quelli trascorsi in prigione. E giovane, tutto sommato, era davvero, come sanno i ragazzi spagnoli che l’hanno incontrato il quindici maggio 2011 alla Puerta del Sol, nei cortei, durante gli scioperi e le manifestazioni. È per quei ragazzi che Marcos ha scritto Vale la pena luchar, un piccolo libro del 2013 che non è un testamento, ma una trasmissione di esperienza e un atto di fiducia. Ed è soprattutto per loro che la porta della sua casa era sempre aperta: in prigione aveva scritto, tanti e tanti anni fa, che “se un giorno esco alla vita/la mia casa non avrà chiavi”.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016

venerdì 2 dicembre 2016

Da leggere: Roque Larraquy


Roque Larraquy




Il bestiario spettrale di Roque Larraquy

È nel 1911 che Severo Solpe, fotografo della buona società di Buenos Aires, ritrae il fantasma di una scimmia fluttuante in una sala operatoria abbandonata: ma la foto è fasulla, scattata su richiesta di un senatore burlone, e l’animale, vivo e sedato, è semplicemente appeso al soffitto. Il trucco ha un tale successo, però, che Solpe lo ripete a grande richiesta, finché, per puro caso, incappa nell’autentico spettro di un’anatra che si aggira nel parco. Nasce così “la tecnica della fotografia ectoplasmatica o ectografia animale”, oggetto delle ricerche che Solpe porterà avanti per tutta la vita, fondando la Società Ectografica Argentina e collezionando le immagini di un bestiario spettrale senza precedenti né paragoni: collezione immaginaria, ovviamente, com’è immaginaria l’ectografia, spiegata con minuzia in Rapporto sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires (Gallucci, traduzione di Ilide Carmignani ed Edoardo Balletta, pag. 86, e. 8,50) di Roque Larraquy, autore nel 2010 del sorprendente La comemadre, in cui sono già evidenti alcuni dei temi di questo suo secondo e frammentario quasi-romanzo.

A partire da un peculiare interesse per le pseudoscienze – intrise di pensiero magico e spesso vicine alle passioni esoteriche della destra estrema – che ancora fiorivano alle soglie del XX secolo, nei ventitré brevi capitoli di questo catalogo surreale, dalle sfumature comiche e inquietanti, Larraquy elabora un discorso sulla morte e sul corpo, manipolato e sezionato, violato o cancellato, ridotto a residuo di cui disfarsi o a insopprimibile traccia materica e immortale, e fa scivolare altre ombre, quelle che infestano l’Argentina e la sua storia, fra gli ectoplasmi dei pesci che nuotano nell’aria, dei cavalli che galoppano al rovescio (corpo inghiottito dal terreno, zampe all’aria), dell’anatra maligna che razzola nel ristorante dove è stata uccisa e cucinata.

L’esercito spettrale degli animali sacrificati, divorati, morti per caso, per necessità o per gioco, si fa dunque metafora o specchio, ci assedia in nome di presagi e di memorie. La marinaresca scimmia albina che nel dicembre del 1939 fugge da una nave all’ancora nel porto di Montevideo, per poi morire nel campanile di una chiesa, non verrà forse dall’incrociatore tedesco Graf Spee, rifugiatosi là dopo la battaglia del Rio de la Plata contro due navi inglesi? E l’occhio di una signora che, nel settembre del 1955, viene avvolto dall’ectoplasma di un uovo con dentro un feto di pollo, c’entra qualcosa con il colpo di stato in corso proprio allora contro Peròn? Quanto al fantasma del gatto Saki, insediato in cima a un albero nel 1953, come mai non vuole più muoversi di lì? Sa, magari, che in Plaza de Mayo scoppieranno due bombe durante una manifestazione sindacale?

Questa memoria trasversale, il cui luccichio ectoplasmatico è appena visibile anche a uno sguardo attento, acquista evidente sostanza negli ultimi capitoli del libro, dedicati alle pagine del diario di Solpe e alle assurde lettere da lui scritte al senatore Dubarry, per chiedergli riconoscimento e appoggio. Alle descrizioni di complessi sciami spettrali, agglomerati di ectoplasmi bellissimi ma aggressivi, che Solpe alterna a imbarazzanti confidenze coniugali, fa infatti da sfondo il golpe che nel 1930 depose il presidente Yrigoyen e diede inizio alla cosiddetta Década Infame, cupo decennio di crisi economiche e dittature militari. Ma a turbare l’ectografo non sono il destino del paese o le manifestazioni di piazza: è piuttosto il chiasso che sale dalla strada e infrange la quiete del suo laboratorio, dove agli animali in gabbia sono state recise le corde vocali, perché non si lamentino mentre muoiono di inedia (solo una morte dolorosa garantisce ectoplasmi perfetti). Incapaci di percepire la crudeltà e la violenza esterne, delle quali la Società Ectografica è una minuscola immagine speculare, i suoi adepti appaiono ridicolmente ciechi alla realtà del mondo, consacrati come sono a ricerche insensate, e Solpe, vera caricatura di se stesso, diventa il modesto presagio di un futuro in cui la rete farà da sconfinata cassa di risonanza a innumerevoli, illusorie, sempre più inquietanti pseudoscienze nuove di zecca.

Con un linguaggio asciutto e preciso, fintamente tecnico, che però trasuda robusto humour nero e allontana qualsiasi riferimento a ogni tipo di mitologia gotica, imparentandosi piuttosto con la più rarefatta science fiction, Larraquy costruisce figure così stilizzate e un testo così rigoroso e insieme bizzarramente poetico, da far pensare a un redivivo Juan Emar (leggendario scrittore cileno del quale ci si aspetta una prossima edizione italiana), e dimostra di possedere una voce di insolita riconoscibilità, usata con grande sicurezza. L’identica sicurezza che sembra esibire l’illustratore di queste paginette levigate e stranianti, ovvero Diego Ontivero, rifiutandosi di commentare visivamente il racconto, per spiazzare il lettore con immagini geometriche dai colori desaturati, realizzate al computer: forme piatte e misteriose che, tra allusioni al cubismo e al costruttivismo russo, danno un ultimo tocco prezioso all’elegantissimo volumetto.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016

mercoledì 23 novembre 2016

Da leggere: José Lezama Lima


José Lezama Lima



Lezama, un continente sconosciuto che si intravede in lontananza

“Leggo Paradiso a poco a poco, sempre più abbagliato e stupito. Un edificio verbale di ricchezza incredibile, o meglio, non un edificio ma un mondo di architetture in continua metamorfosi e, anche, un mondo di segni – suoni che si configurano in significati, arcipelaghi del senso che si fa e si disfa – il mondo lento della vertigine che gira intorno a quel punto intoccabile che si trova tra la creazione e la distruzione del linguaggio, quel punto che è il cuore, il nucleo del linguaggio”.

È in una lettera del 1967 alle sorelle, emigrate negli Stati Uniti sei anni prima, che José Lezama Lima riporta il lusinghiero testo del biglietto inviatogli da Octavio Paz per ringraziarlo dell’invio del romanzo uscito nel 1966 (il primo capitolo era apparso nel ’49 sulla rivista Origenes), e accolto in modo meno positivo dalla cultura ufficiale cubana, in procinto di inabissarsi nelle infinite censure del Quinquenio gris, durante il quale anche Lezama, che aveva accolto la Rivoluzione con entusiasmo e da ragazzo aveva partecipato alle manifestazioni contro il dittatore Machado, sarebbe stato emarginato e ridotto al silenzio (solo negli anni seguenti la sua opera e la sua figura diverranno oggetto di una rivalutazione e di significativi omaggi).

Ma la pruderie governativa – Paradiso, con le sue scene erotiche più che esplicite, venne subito etichettato come pornografico – non fu l’unica causa di una perplessità a tratti irridente, anche se controbilanciata dai molti ed entusiastici giudizi di illustri estimatori stranieri, da Paz a Cortázar a Ribeyro. Il fastidio, il rifiuto, nascevano piuttosto dalla presunta “illeggibilità”, dal linguaggio ermetico, dal mancato rispetto di qualsiasi convenzione narrativa, che connotavano il primo romanzo di un intellettuale ultracinquantenne, già noto per l’intensa attività culturale (attorno a Origenes, fondata nel 1944 e da lui diretta per dodici anni, si era raccolto un gruppo di artisti e poeti che influenzarono profondamente la pittura e la letteratura cubana del tempo), per l’opera poetica inaugurata vent’anni prima dall’ammaliante Muerte de Narciso e proseguita con quattro preziose antologie, e infine per i saggi originalissimi.

Se il poeta e saggista risultava inclassificabile e al di fuori di ogni canone, il romanziere appariva così esigente da far pensare alla prima frase di La expresión americana (raccolta di saggi con cui Lezama aveva sovvertito, nel 1957, la tradizione consolidata del pensiero americanista), ovvero: Solo il difficile è stimolante. Quanto difficile e stimolante sia ancora oggi Paradiso testo che esige pazienza, ma che sprigiona seduzioni tali da indurre il lettore a immergersi in acque profonde, come suggeriva Julio Cortázar – i lettori italiani potranno riscoprirlo grazie a una nuova edizione del romanzo, proposta da Sur (pag. 750, e. 25) in coincidenza con il cinquantenario della prima uscita in lingua originale; la traduzione, corredata di nutrite appendici, è la stessa del 1995, firmata da Glauco Felici per Einaudi: l’unica attendibile, in effetti, perché condotta sul testo rivisto nel 1988 da un gruppo di studiosi cubani guidati dall’origenista Cintio Vitier, cui il confronto con il manoscritto originale permise di eliminare le centinaia di errata che hanno accompagnato la storia editoriale di Paradiso e le traduzioni in lingue diverse.

Nella nota finale, Felici fa presente con umiltà che il suo lavoro (meditato e accuratissimo) presenta “insormontabili imperfezioni” e offre al lettore solo “un’ipotesi di avvicinamento al testo lezamiano”, riconfermando la difficoltà di una scrittura che oppone al traduttore una tenace resistenza. Difficile, dunque, il romanzo; ed ermetico, a tratti quasi indecifrabile. Ma supremamente stimolante, proprio per via dello spaesamento provocato da un’apparente mancanza di coordinate, che consente di evocare l’ironica metafora del naufragio cara a Ortega y Gasset (insieme a Maria Zambrano, un punto di riferimento costante per Lezama): un naufragio dal quale ci si salva perché “come il pesce può naturalmente nuotare, l’uomo può naturalmente pensare”.

Il mare lezamiano, quel Paradiso che è stato via via accostato – con un certo fastidio da parte dell’autore, che giustamente si sapeva unico – alle opere di Proust, di Joyce, di Musil, è composto da quattordici capitoli divisi in due parti: la prima racconta l’infanzia e l’adolescenza del protagonista José Cemí, figlio asmatico e malaticcio, come Lezama, di un alto ufficiale dell’esercito cubano morto troppo giovane, e di una madre adorata che per José, espulso dal paradiso dell’infanzia e destinato a entrare in quello della poesia, rappresenterà una sorta di Beatrice; proprio come Lezama, inoltre, Cemí è un solitario che legge avidamente e cresce in una famiglia di sole donne, colte e indipendentiste, devote al culto di Martí e della buona tavola. E se nei primi quattro capitoli si condensano ricordi d’infanzia di sapore autobiografico, nei successivi un salto temporale conduce alle storie dei genitori, dei nonni, dello zio morto precocemente: vite piene di presagi che annunciano le prove cui José dovrà sottostare. E poi la scuola, la scoperta dell’eros attraverso gli espliciti accoppiamenti senza distinzioni di sesso di un compagno dal pene leggendario: una fabulazione iperbolica e ironica, ben diversa dalle discussioni storico-filosofico-morali sull’omosessualità e sull’originaria androginia del genere umano, che il protagonista affronterà nella seconda parte del romanzo, dedicata agli anni dell’università e al legame con Foción e Fronesis (l’uno assennato ed eterosessuale, l’altro inutilmente innamorato dell’amico), fino alla comparsa della misteriosa figura di Licario, guida e padre spirituale, che aprirà a José la via del sapere poetico (un percorso propiziato, nel romanzo postumo ed incompiuto Oppiano Licario, dall’unione sensuale e mistica con Ynaca Eco, la sorella del maestro). Il tutto sullo sfondo di un’isola e di una città dalla quale lo scrittore si allontanò brevemente solo due volte, e che viene descritta secondo il più puro metodo lezamiano, cioè rileggendo ogni cosa alla luce dell’imago che definisce la realtà (non il mondo com’è, dunque, ma come lo ricrea, lo rivela o lo orienta l’immaginazione).

Popolato da oltre duecento personaggi, il romanzo adotta repentini e inaspettati mutamenti di luogo, non rispetta la successione temporale degli eventi, sostituisce di punto in bianco la voce narrante (ma riserva all’autore il ruolo di demiurgo, e a buon diritto, visto che i personaggi parlano e pensano come lui, sono tutti Lezama Lima), inserisce aneddoti o digressioni sui più diversi argomenti, spesso in forma di dialoghi platonici o dibattiti memori della tradizione medioevale, e infine abbatte le dighe della logica con un fiume di metafore, simboli, sogni, allucinazioni, sensazioni tattili, visive, olfattive, elementi di una festa del corpo che, tuttavia, non ignora mai la presenza della morte, e spesso la corteggia. Come un albero i cui rami continuano a espandersi in tutte le direzioni, Paradiso appare inarrestabile, quasi fuori controllo, composto com’è da magistrali frammenti che continuano a sovrapporsi, nonché avvolto nelle spire di un linguaggio denso, proliferante e ricco di neologismi e invenzioni; ma la fastosa sovrabbondanza che per Lezama era quasi un dogma, e che lo ricollega al barocco immaginoso della “espressione americana” (così lontano da quello ben meditato di Alejo Carpentier, altro grande, ma ben più disciplinato, esponente della letteratura cubana di quegli anni), non deve ingannare: in realtà, è lui stesso a dirlo, il romanzo è un punto di arrivo che “ordina il caos, lo distende sotto le nostre mani perché possiamo accarezzarlo”. L’intero universo di Paradiso è retto da quello che Lezama chiama il suo Sistema Poetico, e che è andato elaborando per anni attraverso le opere precedenti: versi mirabili in cui trovano spazio idee filosofiche e religiose, pagine e pagine di saggistica che, per profusione di immagini e visioni, confinano con la narrativa, il tutto cementato da metafore che alimentano una “immaginazione retrospettiva” capace di imporsi al ricordo, alla realtà, alla Storia.

Tutto questo converge verso Paradiso, che diventa così il culmine, l’espressione compiuta di una poetica capace di trasformare personaggi ed episodi in pure funzioni al suo servizio, e che attinge al sapere strabordante di un lettore autodidatta (Lezama, così attratto dalla letteratura, dovette laurearsi in legge per mantenere se stesso e l’amatissima madre) totalmente immerso nella cubanità criolla e non immemore dell’eredità spagnola (Gongora e Cervantes innanzitutto), ma pronto a far sue le più remote tradizioni culturali, dai precolombiani alla Grecia all’Oriente all’Europa. A proposito di questa inclusione avida e senza limiti e dell’eterogenea erudizione che ne è derivata (nel romanzo trova posto ogni cosa, dal misticismo al mito, dalla teologia ai bestiari medioevali, dalla filosofia alla gastronomia, dalla letteratura novecentesca a quella classica) molti hanno rilevato le inesattezze di Lezama, la sua noncuranza citatoria, la fantasiosa ortografia di nomi e parole straniere.

Piccolezze irrilevanti, dice Julio Cortázar nel suo saggio Per arrivare a Lezama Lima (se ne può leggere un estratto nella edizione Sur di Paradiso), rispetto alla profondità e alla magnificenza di un romanzo epocale e controcorrente. E aggiunge che questo scialo di sapere impreciso ed eterodosso dimostra la seducente ingenuità di Lezama, la sua libertà esplosiva mai paralizzata da timori accademici. Ma viene da pensare anche a un’altra lettura, quella di Severo Sarduy, scrittore cubano che si è proposto a suo tempo come l’erede naturale di uno scrittore senza eredi qual è Lezama, eleggendolo a caposcuola di un’avanguardia neobarocca che il “maestro”, probabilmente, non avrebbe del tutto apprezzato. È proprio a Sarduy, comunque, che si devono pagine acute sugli errori e le storpiature sfuggiti alla sapienza lezamiana: perché non di errori e storpiature si tratta, dice Sarduy, ma di una appropriazione, di una deformazione funzionale al suo narrare, alla sua lingua sensuale, tattile, non aliena al grottesco, all’eccesso e alla parodia tipici del barocco. Su chi dei due abbia ragione si potrebbe, è ovvio, discutere all’infinito, e, con ogni probabilità, inutilmente. Anche perché, come ha osservato Sarduy in anni lontani, ancora oggi “Lezama è un continente sconosciuto che si comincia appena a intravedere in lontananza”.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016

martedì 25 ottobre 2016

Da leggere: Tre autori, due madri


Alberto Chimal 



Alberto Laiseca 

                             

 

Tre autori, due madri 

I nomi di due scrittori latinoamericani importanti e insoliti come l’argentino Alberto Laiseca e il messicano Alberto Chimal probabilmente non dicono molto ai lettori italiani, che hanno a disposizione solo un paio di traduzioni dovute alla competenza e all’impegno di due piccole case editrici: Arcoiris, che nel 2013 ha pubblicato Avventure di un romanziere atonale di Laiseca, e Bibliofabbrica, nel cui catalogo si può trovare Gregge di Chimal, una raccolta di racconti uscita nel 2007. E non c’è dubbio che questa scarsa presenza sia uno dei tanti peccati per nulla veniali della nostra editoria, la cui accresciuta attenzione per gli autori di lingua spagnola sembra, a volte, favorire misteriosamente testi piuttosto banali.

Oggi, però, c’è un’occasione in più per familiarizzare con un autentico monumento come il grandioso, eccessivo, stravagante Laiseca, che in settantacinque anni di vita e oltre cinquanta di scrittura ha prodotto romanzi fuori del comune come El jardín de las máquinas parlantes, La puerta del viento e Los sorias (secondo Ricardo Piglia “il migliore romanzo argentino dopo I sette pazzi di Roberto Arlt”), e come il più giovane Chimal, narratore singolare che nei suoi racconti ci restituisce una quotidianità resa inquietante dal progressivo, quasi sommesso, innesto di elementi fantastici.

È appena arrivato in libreria, infatti, La madre e la morte/La perdita (pag. 56, e. 23,50), che l’editore Logos ha acquistato dal Fondo de Cultura Economica, casa editrice messicana dalla lunga storia, fondata nel 1934 e tutt’ora di proprietà statale, nel cui vasto catalogo sono via via apparsi tutti i nomi più importanti della letteratura iberoamericana. Un libro a tripla firma e con due copertine, che contiene un racconto di Laiseca, La madre e la morte, elaborato a partire dalla tenebrosa novella di Andersen Storia di una madre, e uno di Chimal, La perdita, entrambi dedicati al tema della lotta contro la morte di una madre che ha perso un figlio, ed è disposta a tutto pur di riaverlo indietro.

La terza firma è quella di un illustratore argentino non ancora quarantenne e davvero prodigioso, Nicolás Arispe, coautore a tutti gli effetti di queste narrazioni imparentate con la letteratura gotica e le antiche ballate popolari, fiabe nere e senza tempo, e tuttavia profondamente attuali; benché Laiseca e Chimal non facciano esplicito riferimento a tragedie riconoscibili e presenti, basta aprire il libro per far nascere accostamenti inevitabili con le Madres e Abuelas argentine in cerca di figli e nipoti perduti (i bebès robados dalla dittatura militare), con le madri di Aleppo, con quelle del collettivo Las Rastreadoras, formato nel 2014 da donne di Sinaloa i cui figli sono svaniti nel nulla, e che li cercano senza farsi illusioni, scavando nei campi e nei terreni abbandonati dove, nel giro di qualche anno, hanno ritrovato una cinquantina di corpi da identificare e seppellire.

L’illustratore ambienta La madre e la morte in luoghi devastati da una guerra qualsiasi, e colloca La perdita sullo sfondo di un colossale terremoto, costruendo con inchiostro e pennino minuziosissime immagini in bianco e nero, che a tratti richiamano quelle celebri di Posadas (l’inventore di una classica icona messicana, la Muerte elegante) e aggiungono ai testi infiniti dettagli e metafore. Narratore a sua volta, Arispe interpreta e arricchisce il crudele racconto di Laiseca, spoglio e diretto, in cui la madre intraprende un viaggio verso il centro del deserto (dove, “come tutti sanno”, abita la Morte) che le costerà sofferenza e mutilazioni, per ottenere in cambio soltanto il cadavere del figlio. E la durezza del racconto non è attenuata dalla scelta di attribuire fattezze animali ai personaggi, a esclusione della “rapitrice”, una Morte vagabonda e scheletrica in abiti da soldato; scheletri sono, a loro volta, i protagonisti di La perdita, madre e figlio riuniti da un dio mostruoso che risponde beffardamente alla preghiere materne, restituendole un corpo putrefatto nel quale solo l’anima è viva (alla fine la donna lo brucerà pietosamente, e dalle ceneri sparse avrà origine la Tristezza). Le due storie arriveranno a congiungersi grazie a un’immagine centrale che le conclude entrambe, con le madri sconfitte e contemplate da una lepre, simbolo diabolico nei bestiari medioevali, ma in altre culture legata alla luna – e quindi alla rinascita –, alla fertilità, alle dee madri, e, nella Grecia antica, sacra ad Afrodite e suo figlio Eros. Una speranza, insomma, alla fine di storie disperate, e l’affacciarsi di una possibile elaborazione del lutto.

Splendide e leggibili come testo parallelo, le immagini accompagnano senza offuscarli i testi di due grandi autori dai percorsi differenti e dalle differenti intenzioni. Anche stavolta Laiseca riafferma, reiventando Andersen, la massima paradossale enunciata nel suo saggio Por favor ¡plágienme! (“Perché creare, se esiste il plagio?”), all’origine delle molte reminiscenze di Poe, Lovecraft, Meyrink, rintracciabili nei suoi scritti, e di una bizzarra riscrittura del Dracula di Stoker; allo stesso tempo, con La madre e la morte conferma tanto la sua idea della paura come strumento “pedagogico”, che stimola l’immaginazione e aiuta ad affrontare la realtà, quanto il peso di una sorprendente vocazione di narratore orale, che per qualche anno ha ri-raccontato storie del terrore per una tv argentina via cavo: l’idea del libro, infatti, è nata quando Arispe ha ascoltato lo scrittore che narrava a modo proprio la novella di Andersen, rendendone più aguzzi gli spigoli e più cupe le tinte.

Quanto a Chimal, l’inclinazione per il mito e una scrittura intensamente poetica modulano un racconto archetipico e fitto di simboli, già apparso in una sua antologia di qualche anno fa, El País de los hablistas, collage di dieci magnifiche “leggende” su cui l’autore sembra fondare una personale cosmogonia. Ed è proprio Chimal ad aver dato la risposta migliore a chi gli ha chiesto se il meraviglioso, fosco e coltissimo volume illustrato da Arispe fosse o no destinato ai più piccoli (una domanda inevitabile, trattandosi di un album che il FCE ha collocato in una collana di specialissimi titoli per l’infanzia) “Questo non è tanto un libro per bambini – ha detto lo scrittore messicano, – quanto un libro per lettori”.

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta 2 nell’ottobre del 2016

venerdì 21 ottobre 2016

Anniversari e addii: Violeta Parra



Violeta Parra


Violeta Parra, poeta

A pochi passi da Plaza Italia, nel centro di Santiago de Chile, c’è un edificio basso e imponente (visto dall’alto, potrebbe assomigliare a una chitarra tagliata a metà in verticale), fatto di immense vetrate: è il Museo Violeta Parra, che, inaugurato nel 2015, a partire da ottobre sarà il fulcro di almeno trecento iniziative nazionali organizzate in vista del 4 ottobre 2017, centenario della nascita di colei che il fratello Nicanor, poeta tra i più grandi, chiama “Viola piadosa, admirable, volcánica”, nei versi del lungo poema Defensa de Violeta Parra, oggi incisi lungo la rampa d’ingresso al museo.

Non va dimenticato, però, che in una delle strofe della Difesa (pubblicata per la prima volta nel 1958, e apparsa in una versione ampliata nel 1969), aggiunte dopo la morte dell’amatissima sorella, Nicanor la definisce anche “Viola funebris”, aggettivo che sembra far presente un secondo anniversario, quello della morte di Violeta, suicida con un colpo di pistola nel febbraio del 1967; tra la venuta al mondo e la scomparsa di una donna straordinaria corrono dunque solo cinquant’anni, durante i quali ha preso vita un’opera vastissima che l’ha resa celebre non solo nel suo paese, ma in tutta l’America latina e in Europa, dove è vissuta per alcuni anni tra Francia e Svizzera, visitando instancabilmente altre nazioni per portarvi la sua musica.

È stata davvero lunga la strada percorsa dalla bambina nata in una famiglia assai povera (dieci figli, una madre sarta; un padre stroncato dalla tubercolosi e dall’alcolismo), dall’adolescente cresciuta in campagna ed emigrata nei quartieri popolari di Santiago, dalla giovane donna sposata con un ferroviere comunista e incapace di trasformarsi in casalinga rassegnata, dalla piccola cantora che si guadagnava la vita esibendosi per strada e nei bar. E il Museo, insieme alla Fondazione che porta lo stesso nome, dà conto di questo percorso tumultuoso accostando immagini e suoni, documenti, oggetti, musica (una sala è occupata da un “bosco sonoro” dove, appoggiando l’orecchio a tronchi d’albero cavi, si possono ascoltare le canzoni di Violeta) e infine opere d’arte, ossia i quadri, le ceramiche, le sculture in filo di rame e soprattutto le stupende arpilleras (grandi arazzi di juta ricamata) che “la Viola” produceva a getto continuo e che nel 1959 espose a Parigi, in un padiglione del Louvre.

Se quella di artista visuale è una delle meno note tra le tante identità di Violeta, più che celebre è quella di musicista, compositrice e cantante, nonché di folclorista che ha registrato almeno 3000 canti popolari del suo paese, e che nutriva il sogno di offrire a tutti il frutto del lavoro suo e di altri nell’ormai leggendaria Carpa de la Reina, un tendone da circo alla periferia di Santiago: un progetto difficile, osteggiato da molti, che le costò duro lavoro e amare delusioni, e finì per essere lo scenario del suo congedo definitivo. Ancor meno conosciuta della Violeta pittrice e ricamatrice è poi, almeno in Europa, l’autrice dei versi raccolti finalmente in Poesia, un volume di oltre 400 pagine curato da Paula Miranda, professore presso l’Università Cattolica del Cile e già autrice nel 2013 di un saggio notevole, La poesía de Violeta Parra.

Presentato il 4 ottobre presso il Museo per dare inizio all’anno parriano, il libro include, oltre ai contributi di grandi poeti e scrittori che la stimarono e le furono amici, come de Rokha, Arguedas, Rojas, Neruda, i testi delle 118 canzoni composte da Violeta (tra esse, alcune varianti sconosciute di Gracias a la vida, la più famosa e la più fraintesa), ma anche molti testi inediti e un’autobiografia in versi intitolata Decimas, scritta tra il ’54 e il ’58 per incitamento di Nicanor. Pubblicata due anni dopo la morte di Violeta, Decimas utilizza un metro arcaico e tipico del folclore, che incatena strofe di dieci versi ottosillabi, in rima e con l’obbligo di trattare un medesimo argomento per ogni strofa. Un esercizio complicato, che Violeta praticava con meravigliosa naturalezza, fondendo poesia popolare e letteratura colta, memoria personale e collettiva, e aprendo così la strada alle sue creazioni musicali più significative, come le canzoni splendide e a volte strazianti riunite nel disco Ultimas composiciones (un vero e proprio congedo, prima del suicidio già altre volte tentato).

Proprio dalle pagine di Decimas, Violeta sembra venirci più che mai incontro: dotata di innumerevoli talenti e di energia spropositata, orgogliosa, iraconda e autoritaria, generosa all’estremo; qualcuno, scrive Nicanor, che “non si veste da pagliaccio, non si compra e non si vende, parla la lingua della terra”. Ma anche qualcuno che certi settori della società cilena di allora, profondamente classista e oligarchica, e della sua cultura ufficiale, elitaria e votata al mantenimento dello status quo, non sapevano né potevano accettare, e non solo per via delle posizioni politiche di Violeta, espresse in canzoni mai rassegnate che trasudavano indignazione, dolore, rabbia e ironia. Se per una parte del Cile “la Viola” è stata troppo a lungo una nemica alla quale negare sostegno e riconoscimento – uno dei primi gesti della dittatura di Pinochet fu quello di togliere il suo nome a un quartiere popolare di Santiago –, lo si deve anche al suo rigore, alle sue scelte di vita, al suo essere incredibilmente in anticipo sul proprio tempo.

Il suo approccio al folclore, per esempio, non era certo quello più diffuso e ufficialmente accettato, che considerava cultura e usanze del popolo come un pittoresco cadavere da imbalsamare per garantirne l’incorruttibilità, pronto per essere esibito in occasione di qualche festa patronale. Invece lei, la Viola, non intendeva semplicemente “salvare” la musica e la cultura popolare, anche se dedicò tempo ed energia a sottrarre all’oblio canzoni, leggende, musiche raccolte nei suoi infiniti viaggi attraverso il Cile; quello che voleva era rivitalizzare e usare materiali e forme del folclore, come nota Arguedas, “nel modo più lucido e aggressivo”, per creare qualcosa di originale che parlasse a tutti, uscisse dal ghetto in cui si voleva rinchiuderlo e creasse contaminazioni continue tra mondo contadino e urbano, tra “alto” e “basso”, tra vecchio e nuovo, in modo da evitare che ogni diversità venisse cancellata dall’imposizione di un modello culturale unico.

Il tratto più eversivo di Violeta, la sua provocazione più grande, era però il suo modo di essere donna: libera, spregiudicata, avventurosa, insofferente di ogni costrizione – lo testimonia, tra le altre cose, la sua intensa e instabile vita amorosa, mai sacrificata alla strada che vedeva tracciata davanti a sé –, lontana dai modelli di femminilità domestica e conciliante proposti/imposti in quell’epoca, e non solo in America Latina. Sono le donne del popolo, impegnate come sua madre Clarisa in un lavoro continuo e logorante, pietre angolari di una sopravvivenza difficile, quelle cui Violeta dà voce e che incarna scegliendo panni modesti, ignorando la moda, rifiutando il trucco e le apparenze, vivendo in case dal pavimento di terra battuta, scrivendo canzoni e cantandole, trovando le parole per raccontarsi, ricamando, modellando ceramiche, trasformando le tradizionali forme espressive femminili in arte autentica e personale, mai puramente popolare o colta, sempre lontana da ogni compiacenza o criterio commerciale.

“Uccello in volo che nessuno può fermare”, pronta a correre i rischi che la sua etica rigorosa, la sua assoluta coerenza e le sue scelte audaci comportavano, logorata infine dall’enorme stanchezza e dallo sconforto che colgono il combattente solitario e ostinato (troppo facile ricondurne il suicidio a un amore deluso, al fallimento della Carpa, alle pressioni dei creditori, piuttosto che a un’ultima sfida), Violeta Parra è oggi onorata da un paese che l’ha misconosciuta a lungo, eppure non rischia di trasformarsi in un’immaginetta stereotipata o di lasciarsi imprigionare nel Museo che giustamente la celebra: la qualità eversiva della sua opera è ancora così evidente, così palpabile, da non poter essere del tutto metabolizzata neppure adesso, nel tempo del suo centesimo compleanno.

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’ottobre del 2016

lunedì 10 ottobre 2016

Da tradurre: Roberto Bolaño



Roberto Bolaño


L’eredità di Roberto Bolaño, tra recuperi e polemiche 

La discussione sull’opportunità di pubblicare gli inediti di uno scrittore defunto, lasciati nel cassetto o rinnegati, è così antica e logora che sembra inutile riprenderla: eppure, dopo ogni ritrovamento di qualche importanza, sull’argomento non manca di rinascere un certo dibattito. Chi è favorevole tirerà fuori l’emblematico caso dei manoscritti di Kafka, salvati da Max Brod, o quello dei Papeles inesperados di Cortázar, portati meritoriamente alla luce da Aurora Bernárdez. Altri sosterranno che i testi dovrebbero essere a uso esclusivo degli studiosi; altri ancora chiederanno rispetto per la memoria e la volontà degli scomparsi, alla cui gloria le opere inconcluse o mal riuscite non aggiungono nulla, e porteranno esempi opposti: le scelte della vedova di Borges, Maria Kodama, che fa circolare rimasugli di ogni tipo, comprese le sbobinature di quattro conferenze sul tango del 1956, piene di banalità e di cose già dette, apparse in giugno per l’editore Sudamericana; oppure la fedeltà di Mercedes Barcha, che per non tradire la decisione del marito García Márquez rifiuta di dare alle stampe En agosto nos vemos, romanzo rimasto inedito perché l’autore lo giudicava insoddisfacente.

A simili querelles, però, sembra estraneo il mercato editoriale, che da tempo propone una valanga di reperti, accompagnati da fabulazioni sul recupero miracoloso di una merce il cui valore commerciale non sempre è pari a quello letterario, e che spesso si trova al centro dell’avidità incrociata di editori ed eredi. Può accadere, così, che autori non più in vita producano un congruo numero di novità, come sta succedendo a Roberto Bolaño, scrittore grandissimo e santo laico di un culto planetario, che alla sua morte ha lasciato sia testi inediti ma conclusi, da lui stesso destinati alla pubblicazione, sia una montagna di pagine prodotte in trent’anni di scrittura e già esibite nella mostra “Archivo Bolaño 1977-2003”, inaugurata a Barcellona nel 2013. Da questo materiale – che, dice il critico Ignacio Echevarría, amico di Bolaño e curatore di alcuni suoi titoli postumi, “possiede un interesse in un certo senso archeologico, perché consente di portare allo scoperto gli strati e le fondamenta sepolti sotto l’opera pubblicata per volontà dello scrittore” – sono già stati tratti otto titoli tra narrativa, saggistica e poesia, e altri se ne annunciano.

Il 3 novembre, infatti, esce in America latina El espíritu de la ciencia ficción, che verrà poi presentato alla Fiera del libro di Guadalajara: un romanzo dei primi anni ottanta, offerto al pubblico dalla Editorial Alfaguara, oggi proprietà del colosso Penguin Random House che da anni fa incetta di marchi spagnoli e latinoamericani e che, in accordo con la vedova Carolina López e il suo agente Andrew Wylie, a marzo ha portato via l’intera opera di Bolaño, inediti inclusi, ad Anagrama, il cui direttore Jorge Herralde è stato il primo a credere nello scrittore cileno. Uno strappo al centro di vivaci polemiche, non ultima quella scatenata da Echevarría con un articolo apparso alla fine di settembre, che critica la gestione di López e interpreta la sua rottura con Herralde e con quanti furono vicini allo scrittore, alla luce di una vera e propria “cancellazione” degli ultimi anni di Bolaño, quelli in cui ebbe come compagna un’altra donna.

Al netto dei veleni e delle perplessità, il libro è comunque attesissimo, e il nuovo editore – che si accinge a ripubblicare in formato tascabile e in e-book l’intera opera di Bolaño – ne garantisce la compiutezza, confermata dalla firma e dalla data (1984) apposte dall’autore (ma dalle lettere indirizzate all’amico García Porta risulta che nel 1986 il romanzo non era concluso e che l’autore nutriva dubbi sulla sua riuscita, tanto da lasciarlo poi affondare tra abbozzi e brutte copie). Della storia, dedicata a Philip K. Dick, si sa soltanto che si svolge a Città del Messico negli anni ’70, e che i protagonisti ricordano quelli di I detective selvaggi, ma in versione adolescente; a concludere il testo ci sono poi alcune “lettere aperte” a famosi autori di fantascienza. Un nuovo/vecchio titolo si aggiunge così alla bibliografia bolañiana, ma anche, si è limitato a commentare Herralde, a quella assai vasta “sulle vedove degli scrittori, della quale Carolina López entrerà a far parte”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di ottobre 2016

Da leggere: Valeria Luiselli



Valeria Luiselli




Il work in progress di Valeria Luiselli

Che rapporti ci sono tra l’arte, la letteratura e i succhi di frutta? Più di uno, perlomeno a Città del Messico: al principale produttore locale di succhi e bibite, il Grupo Jumex, si devono sia la nascita di una grande Galleria alla periferia della capitale messicana, sia quella del Museo Jumex, immenso edificio ultramoderno nell’elegantissima Colonia Polanco, che presenta, oltre a una ricca collezione di opere contemporanee, mostre di importanza internazionale. Quanto alla letteratura, il suo legame con le suddette bevande è subito evidente a chiunque legga le ultime pagine del secondo romanzo di Valeria Luiselli (La storia dei miei denti, La Nuova Frontiera, pag. 185, e. 16,50, appena uscito nell’ottima traduzione di Elisa Tramontin), in cui l’autrice racconta che è stata proprio la Jumex a chiederle di scrivere qualcosa capace di collegare la Galleria alla vicina fabbrica di succhi e al desolato quartiere suburbano di Ecatepec, in cui entrambe sorgono.

Ma quello che doveva essere solo un testo da inserire nel catalogo di una mostra si è trasformato in un romanzo vero e proprio, scritto all’inizio in forma di fascicoli settimanali che un gruppo di operai della fabbrica ha letto via via ad alta voce (sul modello delle “letture da tabaccheria” in auge nella Cuba del XIX secolo), per poi discuterli e commentarli. Rivisto più volte, corredato delle foto dei luoghi dove le vicende si svolgono e di un titolo insolito, il libro è apparso nel 2013 presso Sexto Piso (editore indipendente tra i migliori dell’America latina), lasciando alquanto perplessa la critica messicana. Negli Stati Uniti, al contrario, due anni dopo critici e pubblico lo hanno accolto trionfalmente: un successo confermato da riconoscimenti importanti e perfino superiore a quello, già notevole, che il romanzo aveva riscosso in Germania.

Che in Messico La storia dei miei denti non sia piaciuto quanto all’estero, si deve forse al fatto che, dopo le lodi riservate a Carte false (a metà tra narrativa e saggistica) e al suo primo romanzo Volti tra la folla, la Luiselli ha preferito allontanarsi bruscamente da un sentiero che pareva già tracciato, per imboccare la via della sperimentazione più irriverente e spiazzare così quanti le avevano subito assegnato un posto tra le giovani scrittrici nazionali a vocazione intimista e metaletteraria, con sfumature nuove ma comunque riferibili a una tradizione consolidata.

La storia dei miei denti, invece, ha tutte le caratteristiche di un irrefrenabile sberleffo e, pur rimandando apertamente al romanzo picaresco o a certi aspetti dell’avanguardia latinoamericana degli anni ’70 (non a caso qualcuno ne parla come di un romanzo-installazione), respinge qualsiasi etichetta, sfugge a ogni categoria e pratica una libertà inventiva quasi anarchica nel narrare la storia di Gustavo Sánchez Sánchez detto Autostrada, bambino di rara bruttezza e poi custode di una fabbrica di succhi di frutta, ballerino fallito, marito infelice, fabulatore ai confini della mitomania, e infine collezionista accanito e banditore d’asta di talento, che al posto della propria irregolarissima dentatura si fa impiantare quella un po’ ingiallita della defunta Marilyn Monroe, e che in denti celebri (o presunti tali: non mancano quelli di Platone, Petrarca e Virginia Woolf) traffica con spudorata esuberanza, vendendoli grazie agli aneddoti iperbolici che inventa su di essi.

Romanzo comico, surreale, rapido, frammentario, fatto di tante piccole storie incastrate una nell’altra e di inquietanti episodi beckettiani, come quello che vede Sánchez rinchiuso nella sala di una galleria d’arte (o meglio, della Galleria), alle prese con quadri parlanti e con la crudeltà di un figlio perduto, La storia dei miei denti non esita ad affrontare un certo numero di questioni sostanziose, dal rapporto tra arte e mercato o tra artista e committente, fino a una riflessione su ciò che Sánchez chiama “i collezionabili”, ovvero l’enorme quantità di oggetti prodotti, consumati e scartati dal capitalismo maturo: una discarica planetaria in cui si può frugare all’infinito e che, tramite l’assegnazione di nuovi significati (quelli che trasformano la spazzatura in memorabilia), offre la possibilità di riciclare – cioè di vendere ancora, ricavandone altro profitto – praticamente qualsiasi cosa.

Tutti i personaggi minori del libro (sarte, negozianti, operai), portano i nomi di scrittori e artisti del presente e del passato, e accanto a quelli noti ovunque ce ne sono molti che i lettori italiani non riconosceranno, ma che tracciano una specie di mappa minima e personale della letteratura latinoamericana: una scelta che può far pensare a un gioco di società, a un ammiccamento destinato ai lettori forti, finché non ci si accorge che, così svuotata di significato, la girandola dei nomi sembra alludere con leggerezza all’autoreferenzialità della produzione culturale, e insinua che la comunità letteraria sia un mondo sconosciuto e inconoscibile, quindi irrilevante, per quanti non le appartengono.

Ad aggiungere un ultimo, speciale elemento di fascino al romanzo di Valeria Luiselli è infine il suo essere a tutti gli effetti un work in progress; confrontando la versione in lingua originale con quella in inglese o in italiano, è possibile notare numerose differenze: personaggi che cambiano nome, episodi aggiunti, eliminati o trasformati, e perfino l’apparizione di un’incantevole cronologia finale che situa nel tempo la vicenda di Gustavo Sánchez, opera della traduttrice americana Christina MacSweeney. Quasi un altro romanzo, insomma, che si sovrappone a quello immediatamente precedente, perché l’autrice approfitta di ogni passaggio a una nuova lingua per ripensare e rivedere la sua opera, in stretta collaborazione con chi la traduce: un editing costante che nasce dalla sua ossessione per la riscrittura e la correzione. E anche dalla convinzione, è lei stessa a dirlo, che avesse ragione Borges, quando sosteneva che ogni traduzione è un nuovo originale.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2016

lunedì 12 settembre 2016

Da leggere: Marta Sanz



Marta Sanz




Marta Sanz, autoritratto senza veli

Scrittrice esigente e attenta allo stile, dall’epoca del suo esordio – avvenuto nel 1995 grazie a uno scopritore di talenti come Constantino Bértolo, editor di lungo corso – la spagnola Marta Sanz ha pubblicato fino a oggi una dozzina di romanzi alquanto diversi uno dall’altro, nei contenuti come nella forma, che, dopo qualche incertezza iniziale, hanno segnato le tappe di una progressiva maturazione e sembrano collegati l’uno all’altro da fili di volta in volta ripresi e riannodati: la frequentazione di generi diversi (l’autrice si è cimentata anche nel poliziesco con due romanzi sofisticati e insoliti, Black black black e Un buon detective non si sposa mai, pubblicati in Italia da Nutrimenti), l’ironia che diventa spesso humor nero, la capacità di cogliere le sfumature del discorso orale, l’interesse per la cultura popolare e per i modelli che trasmette, l’intensa attenzione per l’adolescenza, per le famiglie d’ogni tipo, per l’universo delle donne (alcuni dei suoi libri sembrano magistrali concerti di voci femminili) e per la corporeità, compresa quella più tormentata e disturbante.

A unificare davvero una produzione in apparenza eterogenea è però la qualità etica e politica della narrativa di Marta Sanz, che in alcuni testi emerge come un sottofondo puntuale e costante, ma che in altri può diventare violenta provocazione, come in Susana y los viejos, del 2006, con il suo groviglio di corpi vecchi e malati, di sesso mortifero e di esequie eleganti (la residenza per anziani in cui si svolge la vicenda è, molto opportunamente, anche un’agenzia di pompe funebri), o trasformarsi in satira feroce, come testimonia l’ultimo romanzo, Farandula, vincitore nel 2015 del premio Herralde, che offre un quadro amaro e a tratti esilarante della cultura contemporanea, confinata in una docile irrilevanza, e dell’uso dei social media.

In ogni romanzo, Sanz cerca di “rendere visibile l’ideologia invisibile”, di riportare a galla disvalori così introiettati da non venire più messi in discussione e di sbeffeggiare il “pensiero positivo” che per lei è la maschera ideologica del neoliberismo. Quello che le interessa è proporre una letteratura politica che oggi non è isolata nel contesto letterario spagnolo (basta pensare a un maestro come Rafael Chirbes, scomparso da poco e grande estimatore della Sanz), ma che nel suo caso si distingue per la propensione a un sarcasmo tagliente, per originalità e per una scrittura sorprendente e mutevole; una letteratura disobbediente, che inquieta e che lo fa nel modo più imprevedibile, spiazzando il lettore e ribaltandone le aspettative. E il gioco riesce anche in La lezione di anatomia (in uscita presso Nutrimenti, nella traduzione di Federica Romanò) che tra i testi della Sanz è uno dei più amabili, appena sfiorato dal tocco agro o dal gusto per il grottesco tipici dell’autrice, e illuminato da un umorismo lieve ma per nulla conciliante.

Di questo libro si potrebbe dire che è nato due volte, una vera fenice risorta dalle proprie ceneri, perché Sanz, scrittrice fra le più interessanti e apprezzate della Spagna contemporanea – ma anche poetessa, saggista, cronista di viaggio per il quotidiano El País – lo ha pubblicato nel 2008 con scarso successo di vendite ed eccellenti critiche, per rimetterci mano sei anni dopo e proporlo in una versione ripensata in profondità da un’autrice più matura, intenta a guardarsi indietro come a scrutare dentro di sé (la nuova edizione dell’Editorial Anagrama è del 2014).

“A quasi cinquant’anni, non posso permettermi una narrazione nebulosa della mia infanzia”: forse è questa frase, pronunciata dalla protagonista di uno dei migliori romanzi di Sanz, Daniela Astor y la caja negra (2013), a gettare luce su un’operazione del genere, che ha arricchito il testo di parecchie pagine, limato ammirevolmente lo stile e raggruppato i capitoli in tre parti che corrispondono a infanzia (Recintare il giardino), adolescenza e prima giovinezza (I bachi da seta) e vita adulta (Nudo) della protagonista. Circa l’identità di quest’ultima il lettore viene messo sull’avviso, ancora prima di cominciare, da un’epigrafe di Christophe Donner (“Non dire io quando si tratta di sé stessi non è solo nocivo all’igiene personale dello scrittore; è anche, per il fatto di non esplicitare i vincoli che lo uniscono ai propri personaggi, un modo di tradirli, abbandonarli…”), che lo guida verso una immediata scoperta: la protagonista si chiama – come l’autrice – Marta Sanz, è nata nel 1967 a Madrid, bambina cresciuta nel caos estivo e nell’estraneità linguistica di Benidorm (celebre e mostruoso vacanzificio in provincia di Alicante, dove si parla il molle valencià), adolescente studiosa e curiosa, che una volta laureata in Lettere farà delle parole il suo mestiere, in veste di insegnante, poetessa che scrive in segreto, e finalmente autrice di romanzi.

La seguiamo mentre rievoca la propria decisione infantile di non avere figli, mantenuta fermamente da adulta, perché il suo primo, presunto ricordo (in realtà una rielaborazione dei drammatici racconti familiari) è la terrificante emorragia materna che rischia di renderla orfana subito dopo il parto; eccola poi con sua madre, amata gelosamente, la nonna Juanita, le zie eccentriche o mal sposate, le amiche, tutte riunite, anno dopo anno, in una fitta rete di relazioni. Da un certo punto in avanti, Marta percepisce e affronta a modo proprio il rigetto silenzioso della piccola borghesia provinciale nei confronti della sua famiglia (un padre intellettuale e comunista, una madre che non va in chiesa, fuma e osa indossare il bikini): osserva, registra, immagazzina le contraddizioni degli adulti, senza sapere che un giorno ce le restituirà attraverso la scrittura; esplora le pieghe più nascoste dei rapporti familiari, o rivela con un’ironia deliziosa i segreti propri e altrui (come è fatto un pene, le prime mestruazioni, le paure, le bugie, il dubbio di essere lesbica, ma senza saper bene cosa voglia dire). Negli anni della transizione, la ritroviamo adolescente in giro per Madrid mentre qualsiasi libertà sembra a portata di mano (e invece no, tutto sommato). Le ultime pagine del libro sono dedicate al proprio corpo nudo, descritto con millimetrica esattezza: un quadro esposto nella sala di un museo, oppure una performance alla Marina Abramovic, una figura immobile in attesa di essere studiata e misurata; non una trovata provocatoria, ma un modo per rendere esplicito il legame – o meglio l’identificazione – tra corpo e linguaggio che attraversa tutta l’opera della Sanz, e che lei dichiara di considerare una caratteristica della più intrepida letteratura prodotta dalle donne.

Si tratta di un’autobiografia, dunque, o di uno dei tanti romanzi di formazione che attingono alla memoria personale e la trasfigurano, rendendo incerto e vago il confine tra finzione e realtà? O siamo davanti a una delle autofiction – storie di famiglia, storie d’infanzia e di crescita, di crisi individuali o generazionali – in cui si tuffano così spesso gli scrittori fra i trenta e i quarant’anni? L’impressione è che Marta Sanz abbia imboccato una strada diversa, decidendo di esporre al pubblico il proprio autoritratto iperrealista, complesso e completo, tracciato con infinite e minuscole pennellate, nel tentativo di definirsi, di riconoscersi e farsi riconoscere, ma anche di porre uno specchio davanti al mondo in cui è cresciuta, costringendolo a osservare da vicino e senza distogliere lo sguardo ciò che il tempo ha scritto sul corpo della società spagnola, dall’ultimo decennio franchista ai nostri giorni, in un linguaggio così profondamente inciso da non poter essere cancellato.

Sanz, insomma, non si limita a dirci “ecco come ero e sono, è da qui che vengono i miei libri”, ma si affretta ad aggiungere: “ecco come eravamo, ed è per questo che siamo così”.

E, grazie alla sua straordinaria capacità di rappresentare sentimenti, scoperte e sensazioni di un’infanzia e un’adolescenza con cui non è difficile identificarsi, l’invito a guardarsi allo specchio va inevitabilmente esteso anche a noi.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il manifesto nel settembre 2016

lunedì 18 luglio 2016

Da leggere: Daniel Alarcón



Daniel Alarcón




I due mondi di Daniel Alarcón

La rivista Granta l’ha inserito anni fa in una delle sue celebri liste, quella dei ventuno giovani romanzieri più promettenti degli Stati Uniti, mentre l’Hay Festival di Bogotà l’ha indicato, insieme a una trentina di scrittori sotto i quarant’anni, come uno dei migliori esponenti della letteratura latinoamericana contemporanea. Una contraddizione che aiuta a rendersi conto di come l’opera di Daniel Alarcón, del quale Einaudi ha appena pubblicato il secondo romanzo (Di notte camminiamo in tondo, pag. 303, e. 20, nella traduzione di Ada Arduini), non sia collocabile al riparo di una delle tante frontiere americane e incarni, a ben vedere, il superamento o la negazione dell’idea stessa di letteratura nazionale. Se in quanto scrittore peruviano appare anomalo, perché scrive in inglese e da un punto di vista curiosamente remoto, composto in parti uguali di estraneità e ansia di appartenenza, rispetto agli autori latinos del Nord America (quelli che in genere vengono riuniti sotto l’etichetta di Hispanic Literature) Alarcón è senz’altro in controtendenza, perché la sua narrativa non si occupa di temi e problemi relativi all’immigrazione, alla costruzione di una nuova identità, al rapporto con il paese di adozione: è invece la terra delle origini a rappresentare il fulcro delle sue ottime raccolte di racconti (Guerra a lume di candela è l’unica tradotta in italiano per le edizioni Terre di Mezzo), di alcune nouvelles e dei due romanzi (il primo, Radio città perduta, è apparso presso Einaudi nel 2011).

Con gli scrittori latinoamericani della sua generazione ha invece alcune cose in comune, come l’avventura della sperimentazione formale e il tentativo (riuscito) di raccontare guerre, dittature e traumatiche vicende collettive riconducendole a una dimensione più intima e individuale.

Lo scrittore aveva solo tre anni quando, nel 1980, i suoi genitori decisero di trasferire la famiglia da Lima a Birmingham, in Alabama, per sottrarsi alle turbolenze di una nazione che, nonostante la fine della dittatura militare, appariva sull’orlo del disastro, e che in poco più di vent’anni avrebbe conosciuto gravi crisi economiche, un nuovo regime autoritario e una guerra civile particolarmente feroce. Cresciuto nell’agiato spazio suburbano di una cittadina americana e laureato in antropologia alla Columbia University, Alarcón probabilmente non si riconoscerebbe nella frase di Elsa Triolet, scrittrice sempre in bilico tra il francese e la madrelingua russa: “Si direbbe una malattia: soffro di bilinguismo”. Se gli è toccato, come a molti, vivere e scrivere tra due lingue, appare ovvio che quella letteraria sia l’inglese, fondamento della sua formazione intellettuale ed estetica, mentre lo spagnolo resta quella degli affetti, tenacemente orale e travasata oggi anche nelle cronache di Radio Ambulante, progetto plurinazionale creato proprio da Alarcón, che lo coordina da San Francisco, dove oggi vive: una radio on line finanziata tramite il crowdfunding e dedicata a storie di vita latinoamericane, raccolte e raccontate da scrittori.

È perciò in un inglese terso, quasi spoglio, libero dalle contaminazioni dello spanglish, che Di notte camminiamo in tondo narra il Perù e lo rende riconoscibile, senza mai dirne il nome, attraverso i quartieri di Lima, i paesaggi andini, i gironi infernali di Lurigancho (carcere sterminato e teatro di massacri, che Alarcón ha visitato in veste di giornalista, e che nel romanzo si chiama Recolectores), i ricordi di una guerra che costringe il presente a misurarsi continuamente con il passato e a riconoscerlo nelle ferite della collettività, nella sofferenza dei singoli, nell’insoddisfatto bisogno di giustizia. E proprio dall’intreccio tra passato e presente nascono la storia di Nelson, studente alle prese con un amore incerto e con la vana speranza di raggiungere il fratello negli USA, e quella di Henry Nuñez, leggendario teatrante d’avanguardia, ormai ridotto a un fantasma che si guadagna da vivere guidando un taxi. Uniti dal desiderio di ripetere la lunga tournée che la compagnia Diciembre (modellata su un gruppo teatrale peruviano realmente esistito) aveva intrapreso tanti anni prima per “portare il teatro al popolo”, rappresentando nelle cittadine e nei villaggi dell’interno una provocatoria pièce dello stesso Nuñez. Nelson e Henry finiranno per sovrapporre e confondere i propri destini, disegnando un cerchio che si richiude su un’identica impossibilità di salvezza, come estranea a ogni salvezza è la società della quale la prigione di Recolectores, dove Henry è stato a lungo rinchiuso, sembra un’estrema e inquietante immagine speculare.

Se Nelson, scelto come nuovo primo attore dello spettacolo, è il volto contraddittorio e confuso di un paese cambiato, pieno di cicatrici e tuttavia in movimento (anche se la direzione è incerta e piena di ombre poco rassicuranti), Henry resta immerso in un passato devastante, una catena di fallimenti e delusioni che però gli ha concesso, negli anni della detenzione, l’amore del ragazzo Rogelio. Attorno a loro, una folla fin troppo fitta di personaggi minori contribuisce a popolare una vicenda complessa, cui fa da epigrafe una frase di Guy Debord: “L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo come agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto”.

In una società intesa come immenso palcoscenico, il discorso del potere e il chiacchiericcio servile dei media sono finzioni infami; finzione eroica è quella di Rogelio, che si è assunto il peso dei crimini commessi dal fratello, e finzione amorosa quella della madre di Nelson che, per tener viva la memoria del marito defunto, invia ai giornali lettere firmate col nome di lui. Finge con alterno impegno la misteriosa Ixta, divisa tra due amanti; assorte nell’autoinganno sono la madre e la sorella di Rogelio, per le quali Nelson si presta a incarnare il figlio e fratello redivivo, e nasce da una sinistra messa in scena del caso l’ultima svolta che il romanzo gli riserva.

Su questa rete di rappresentazioni più o meno consapevoli, più o meno fraudolente, e sul senso di apprensione e di attesa che riescono a creare nel lettore, si fonda la costruzione di un’ambiziosa architettura narrativa, composta da innumerevoli flashback, convincenti e a volte fulminei ritratti di luoghi e persone, brevi frammenti destinati a saldarsi almeno in parte in una sorta di mosaico grazie a un giovane giornalista (o meglio cronista, ligio ai procedimenti del nuevo periodismo latinoamericano) che indaga sul destino di Nelson, ma solo per scoprire quanto la verità sia sfuggente e inconoscibile, una storia che varia in continuazione, a seconda della voce narrante e del punto di vista.

E, in questa luce, anche la vaghezza toponomastica del testo acquista un senso: non è più un semplice escamotage per evitare l’esercizio di una faticosa verosimiglianza, ma si propone come un’ultima e indispensabile finzione. Perché in realtà Alarcón ci sta parlando di un Perù non del tutto immaginario eppure immaginato, un territorio mitico, quasi faulkneriano, reinventato da uno sguardo curioso, indagatorio e mai sazio, sempre intento a praticare l’inesauribile gioco del what if, per consentire all’autore – come lui stesso ha più volte confessato – di interrogarsi su quello che avrebbe potuto essere la sua vita se non avesse cambiato mondo, se non ne fosse mai andato.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2016