sabato 14 novembre 2015

Da leggere: Adrián Bravi


Adrián Bravi




L’Argentina sott’acqua di Adrián Bravi 

Entre Ríos è una provincia argentina attraversata da migliaia di corsi d’acqua grandi e piccoli e incuneata tra due grandi fiumi, il Paraná e l’Uruguay: quasi un’isola, dove la lingua dei cosiddetti alemanes del Volga viene ancora parlata dai discendenti delle comunità tedesche insediate in certe zone della Russia, e poi emigrate in terre infinitamente diverse e lontane; ma anche l’italiano, l’yiddish, l’arabo hanno lasciato tracce evidenti nel complesso intreccio linguistico di un territorio che la grande ondata migratoria europea dei secoli scorsi ha popolato di colonie agricole, piccole città e paesini sperduti.

Proprio in questa regione bizzarra, fatta di basse ondulazioni e vaste distese acquitrinose dove il confine tra cielo e acqua si attenua fino a scomparire, è ambientato L’inondazione (Nottetempo, pag. 184, e.13) di Adrián Bravi, che, nato nel 1963 a Buenos Aires in una famiglia di origini italiane, più di trent’anni fa ha compiuto una sorta di viaggio a ritroso ed è tornato nelle Marche da cui erano partiti i nonni, diventando uno scrittore che usa la nostra (e ormai sua) lingua per costruire romanzi dallo stile personalissimo e sommesso, con una vena di stralunato umorismo.

Bravi, va detto, è uno scrittore difficile da classificare (sempre che sia necessario farlo), da incasellare in una tradizione letteraria o da imparentare a “maestri” di qualsiasi genere, anche se lo si potrebbe accostare a un César Aira meno provocatorio e sperimentatore, ma più lieve e più attento alla scrittura, capace di rendere il sapore di un’oralità svagata quanto poetica e di trasmetterci, come in questo caso, la visione di un’Argentina inventata, sognata, quasi mitica, divenuta una volta per tutte luogo dell’immaginazione. Uno scrittore originale, insomma, cosa che lo rende perlomeno insolito nel panorama italiano e ne raccomanda la lettura.

Quest’ultimo romanzo, forse il migliore e il più maturo tra i sei pubblicati finora, ha un ritmo quasi ipnotico, simile allo sciabordare dell’acqua contro i fianchi di una barca, e ruota intorno all’improvvisa inondazione di un paesucolo abituato a convivere con un fiume familiare e relativamente quieto, che si abbandona di rado alla furia, ma che stavolta tracima e costringe alla fuga gli abitanti, lasciando emergere solo i piani alti, i tetti, le cime degli alberi, e aprendo le case alle incursioni degli yacaré, ossia i caimani neri, gli stessi che Horacio Quiroga, nei suoi Cuentos della Selva destinati ai bambini, trasformò in esercito pacifista deciso a contrastare le navi da guerra. A Río Sauce restano soltanto i morti del cimitero (ora sepolti due volte, sotto vari metri di terra e altrettanti di acqua) e Ilario Morales, vecchio cocciuto e solitario, asserragliato in soffitta mentre al pianterreno scorrazzano gli yacaré e l’umidità mangia lentamente le mura.

Venuto da lontano, come quasi tutti i vecchi del paese (è nato in Spagna, nei Paesi Baschi), Morales non è un eroe, né un pazzo, né un naufrago in trappola: percorre serenamente in barca le strade del paese per impararne di nuovo il tracciato, approda ogni giorno all’asciutto per consumare la solita scodella di fagioli all’osteria del Turco Hasan, arriva a nutrire con compassionevole freddezza lo yacaré che si è insediato in una stanza al primo piano, fa lunghe soste sulle tombe invisibili della moglie e della figlioletta, e si avventura in un paese vicino, dove un allegro cane lo sceglie come padrone. A spezzare la sua solitudine ci sono i molti tentativi di convincerlo a lasciare l’eremo acquatico, compiuti dal figlio e dai paesani, ma anche le presenze di animali bizzarri, di gocciolanti e spauriti turisti giapponesi, di saccheggiatori dalla comica goffaggine, e infine l’eco di voci incontrollate su misteriosissimi cinesi che vorrebbero comprare il paese sommerso, in vista di speculazioni edilizie ancor più misteriose.

E poi il fiume, che sembra essere lì non per cancellare ogni cosa, ma per rivelarne la vera natura, si ritira, e con esso se ne va anche Morales, lasciando un Río Sauce rinato a una vita che il vecchio sente improvvisamente falsa ed estranea; e il suo ultimo rifugio sarà lontano dall’acqua, ma solo per ricordarla meglio, come se il paese autentico fosse quello sovrastato da un cielo liquido, dove le sagome degli yacaré sfrecciano ovunque. Si capisce fino in fondo, allora, quanto sia appropriata l’epigrafe scelta da Bravi (“Ma il fiume era un dio o non era, in realtà, il tempo?”), un verso del più grande poeta entrerriano, quel Juan L. Ortiz a proposito del quale Borges – che lo disprezzava ingiustamente – e Juan José Saer – che invece lo considerava il proprio maestro – si trovarono a battibeccare nel corso di un comune viaggio in treno. Il cuore de L’inondazione è infatti il tempo, quella porzione di tempo immobile e sospeso che a volte ci viene concessa (o che alcuni riescono ostinatamente a concedersi) per capire quanto sia giusto e inevitabile, come suggerisce Morales, “disfarsi di tutto”, imparare a dire addio.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre 2015

lunedì 9 novembre 2015

Anniversari e addii: Antonio Dal Masetto


Antonio Dal Masetto




El Tano se fué

Non molti, forse, si ricordano di Emigrantes, il primo dei nove film che Aldo Fabrizi scrisse, diresse e interpretò tra il 1949 e il 1957: la storia del muratore Giuseppe Borbone e della sua famiglia era schematica quanto ingenua, ma rifletteva un fenomeno reale, favorito dagli accordi stipulati nel secondo dopoguerra tra l’Italia e l’Argentina per fornire mano d’opera qualificata ai progetti di sviluppo economico del governo Perón. Dal ’47 al ’51, 300.000 italiani si aggiunsero agli oltre due milioni già partiti in anni lontani per la “terra promessa”, anche se stavolta, a differenza del passato, un buon 60% decise di tornare indietro, proprio come il protagonista del film e sua moglie Adele (Ave Ninchi), che nel nuovo paese si ammala di nostalgia, mentre il marito arriva a ordire un goffo imbroglio pur di trovare i soldi per il rientro in patria.

Altri, però, rimasero per sempre, e tra loro c’era Antonio Dal Masetto, che nel 1951 aveva lasciato Intra, un paesetto sul lago Maggiore, per raggiungere il padre, ex operaio disoccupato che era riuscito ad aprire una macelleria a Salto, nella parte più settentrionale della provincia di Buenos Aires. Quando sbarcò insieme alla madre e alla sorellina, Antonio, allora dodicenne, non sapeva una parola di spagnolo e ignorava che, dopo averlo imparato a poco a poco, leggendo quanto trovava in una biblioteca pubblica fondata da qualche anarchico, sarebbe diventato uno scrittore famoso e, soprattutto, uno scrittore argentino, capace di usare con secca rudezza una lingua divenuta così sua da scalzare quella materna.

Ora che Dal Masetto è morto (il 2 novembre, all’Ospedale Italiano di Buenos Aires, per un infarto che ha avuto ragione del suo cuore malandato), prima ancora di citare i titoli dei suoi dieci romanzi e delle sei raccolte di racconti, i molti omaggi affettuosi apparsi sui giornali argentini ricordano soprattutto due cose: la sua identità di immigrato – non a caso per tutta la vita l’hanno chiamato el Tano, il più diffuso tra i soprannomi dati agli italiani –, e allo stesso tempo la sua profonda appartenenza alla Buenos Aires dove si era trasferito a diciassette anni, e dove avrebbe fatto il venditore ambulante, l’operaio e l’imbianchino, mestiere che gli toccò esercitare a lungo, prima di potersi mantenere con collaborazioni a riviste e giornali come il quotidiano «Pagina/12», e con i proventi dei suoi libri. Si potrebbe dire che, nonostante il continuo affiorare di una duplice identità, più di ogni altra cosa el Tano fosse un porteño del Bajo, la zona dove si incontrava a tarda sera con amici come Miguel Briante, Guillermo Saccomanno e Osvaldo Soriano, che lo considerava uno dei migliori scrittori argentini. Conosceva assai bene, però, anche la provincia, le piccole città come Salto, le loro ipocrisie, le loro ferree caste sociali, la durezza quasi feroce nascosta dietro un velo di rispettabilità…

Lo sguardo disorientato e apprensivo, ma anche curioso, di chi deve lasciarsi tutto alle spalle per affrontare una terra infinitamente lontana; il passaggio da un lingua a un’altra, da un continente a un altro, dall’estraneità all’integrazione; l’approdo autodidatta alla cultura e alla scrittura, l’immersione nella vita e nel melting pot di una metropoli oscura, sorprendente, bizzarra, e infine la delusione di un breve ritorno nel paese d’origine, all’inutile ricerca dell’eden infantile: di tutto questo è fatta la narrativa di Dal Masetto, intensa, cruda, violenta e amara, con sfumature ironiche e lampi di poesia. Romanzi come Strani tipi sotto casa, uno dei migliori mai scritti sui mondiali di calcio che servirono alla dittatura militare per autocelebrarsi, oppure Bosque e È sempre difficile tornare a casa, storie criminali ambientate in una piccola e sinistra città dell’interno, sono difficili da dimenticare, per l’efficacia della scrittura come per l’asprezza dei contenuti, ed è un peccato che le traduzioni italiane non abbiano riscosso l’attenzione e la fortuna che avrebbero meritato, com’è un peccato che solo Oscuramente forte è la vita, il primo dei tre romanzi dedicati alla vita di una famiglia immigrata, sia stato proposto vent’anni fa da un piccolissimo editore, per scomparire in fretta. Così come sembra scomparsa, del resto, la memoria del tempo in cui i migranti eravamo noi, custodita sino alla fine da Antonio Dal Masetto, outsider solitario, uomo di poche parole, scrittore dalla prosa scabra e concreta, che ha saputo fare dello sradicamento la propria ricchezza.

 

 Questo articolo è uscito su Alfabeta 2 nel mese di novembre 2015