sabato 18 luglio 2015

Da leggere: Alejandra Pizarnik


Alejandra Pizarnik




Alejandra, la figlia dell’insonnia 

Poche riedizioni, pochi recuperi, tra i molti cui l’editoria attuale ci ha abituato, appaiono altrettanto opportuni di quello che consente oggi un ritorno in libreria di La figlia dell’insonnia (Crocetti pag. 190, e. 14), ampia scelta dei versi di Alejandra Pizarnik a cura di Claudio Cinti, con un testo del poeta surrealista argentino Enrique Molina e il breve prologo che Octavio Paz scrisse per una delle raccolte più importanti dell’autrice, Albero di Diana. Già pubblicata nel 2004, l’antologia era ormai introvabile, e il suo ritorno è in sintonia con l’interesse crescente, nel nostro paese, nei confronti di una figura quasi leggendaria attorno alla quale si è addensata un’enorme mole di indagini critiche, interpretazioni e studi, ma che viene spesso affrontata in modo superficiale e stereotipato, al punto che solo oggi, a quarantatré anni dalla morte, la foresta di luoghi comuni cresciutale intorno è stata in parte disboscata, grazie anche alla pubblicazione dell’epistolario (alla prima edizione del 1998 se ne sono aggiunte altre due via via più ricche) e dei monumentali Diari in edizione definitiva (1100 le pagine del volume uscito nel 2013 per mano di Ana Becciu, che dell’opera di Alejandra è la curatrice), finalmente liberi dalle prudenti censure che nel 2001 avevano espunto moltissime annotazioni considerate eccessivamente intime.

È accaduto troppo spesso che l’affascinante personaggio di Alejandra Pizarnik si sia sovrapposto, fino a nasconderle, alle nove raccolte di poesia e alle straordinarie prose (davvero scoperte solo nel 2002, quando Ana Becciu le ha riunite in volume) prodotte tra il 1955 e il 1971, anno in cui la sua parabola creativa si chiuse con La contessa sanguinaria (Playground 2005), una stupefacente nouvelle gotica, e con l’ultima antologia, L’inferno musicale, più che mai connotata dalla fusione tra prosa e poesia, spezzata in brevi frammenti. A segnare il principio di questo “divoramento” dell’opera da parte del dato biografico è stata ovviamente la fine di Alejandra Pizarnik, che, dopo diversi ricoveri in cliniche psichiatriche, grazie a un breve “licenza” concessa dai medici tornò nella sua casa di Buenos Aires, piena di bambole e fantocci smembrati, di animaletti in legno e metallo, di mobili insolitamente piccoli e di carte, carte dappertutto: ritratti di scrittori defunti, labirintici disegnini, quaderni, fogli, libri. “Un cosmo magnetico di oggetti” – così lo definì Antonio Requeni – all’interno del quale Alejandra venne trovata morta il 22 settembre del 1972: cinquanta pastiglie di Seconal avevano definitivamente cancellato l’insonnia che la tormentava sin dall’adolescenza, contribuendo a farne una creatura notturna, sempre più estranea alla luce del giorno (per lei le quattro del mattino, scrisse qualcuno, “erano l’ora della merenda”).

Anche se c’è chi vuole credere a un’overdose involontaria, non sono in molti a dubitare che la Pizarnik abbia portato a termine un suicidio a lungo evocato, suggellando così il proprio mito futuro e dando l’ultima pennellata a quell’immagine “maledetta” che lei stessa aveva contribuito a disegnare: lo ricorda Sylvia Molloy, che la conosceva bene e che la racconta impegnata in una “autoraffigurazione permanentemente bisognosa di testimoni”, ma che allo stesso tempo ci fa notare come tra le componenti di tale autoraffigurazione ci fossero anche un’indubbia e maliziosa buffoneria, una sorprendente vocazione per il dandysmo, un’inclinazione a trasformare ogni gesto in performance che implicava una sorta di riscrittura del corpo (quel corpo odiato quando era un’adolescente bruttina, balbuziente e asmatica, e poi “lavorato” fino a farlo diventare quello di una pallida, stravagante bohémienne), sempre proiettato verso lo sguardo altrui. Elementi, questi, che divergono notevolmente dall’immagine consueta di una Alejandra tragica, attratta dalla morte, assorta nel rimpianto di una infanzia perduta, fragile, convinta di non poter essere amata: una figura che corre il rischio di diventare – dice César Aira, suo singolare biografo – “una specie di ninnolo decorativo sullo scaffale della letteratura”.

Ma che Alejandra Pizarnik sia ben altro che un “ninnolo” e resti in buona parte un labirinto pieno di sorprese ce lo dimostra la lettura incrociata della sua opera da sempre visibile – ovvero la poesia, resa almeno in parte accessibile al lettore italiano dalla bella scelta di Cinti e dalla sua raffinata traduzione, e la prosa, da noi immeritatamente sconosciuta, che con la sua coloritura oscena, comica e a tratti violenta sembra anticipare quel neobarocco, rioplatense nel quale si potrebbero collocare, oltre al suo teorico Nestor Perlongher (che preferiva chiamarlo neobarroso, da barro, ossia fango) anche Lamborghini e Copi – e di quella per molto tempo invisibile, ossia la corrispondenza e soprattutto i diari, la cui natura letteraria è indiscutibile, non solo perché in buona parte dedicati all’accumulo e all’analisi di citazioni tratte dalle infinite letture dell’autrice, quasi a creare un enorme deposito di materiali cui attingere, ma anche perché si tratta di testi destinati, e in modo non inconsapevole, allo sguardo altrui. Uno sguardo che prima o poi, l’autrice non poteva ignorarlo, si sarebbe posato su quella calligrafia minuta per raccogliere un’ulteriore testimonianza della estraneità di Alejandra, già proclamata dalla sua poesia: estranea al paese dove era nata ma dove non aveva radici (i suoi genitori, ebrei russi, vi arrivarono poco prima della sua nascita), nella cui tradizione letteraria non si riconosceva del tutto – preferiva la filiazione ideale dal surrealismo francese, che l’avrebbe influenzata profondamente, oppure da Kafka e dai racconti chassidici –, e nelle cui vicende politiche e sociali non si sentì coinvolta, restando estranea alle correnti che negli anni ’60 attraversarono la letteratura latinoamericana e rompendo – come Silvina Ocampo, come Sara Gallardo – i condizionamenti di uno sguardo maschile che ancora rinchiudeva le donne letterate nel recinto dell’emotività, del sentimento, delle vicende domestiche. Straniera si sentiva, addirittura, in seno a quel linguaggio che era la sua ossessione e dentro il quale cercava rifugio e nascondiglio, cercando di governare e comporre le parole nel modo più semplice, pulito e perfetto, in versi sempre più brevi che, come in Estrazione della pietra della follia, si travestono a volte da prosa, formando piccoli blocchi compatti. Straniera a se stessa, infine, tanto che i suoi versi sono in continuo dialogo con un “tu” che è in realtà un “io” interpellato o ammonito, mai raggiunto, mai ricomposto, frantumato in un’originaria e simbolica pluralità di nomi: perché Alejandra si chiamava in realtà Flora, detta Buma, detta Blimele, e neppure il cognome era davvero il suo (all’arrivo della famiglia in Argentina, infatti, era stato modificato da un errore di trascrizione).

Alla poesia, i Diari e le lettere fanno da controcanto, svelando dolori, difficoltà, passioni quasi ossessive (come quella, ultima, per l’anziana Silvina Ocampo), e confermando il desiderio per il corpo femminile, il rapporto difficile con la famiglia e con la madre, gli eccessi, le lunghissime insonnie, le amicizie fedeli (Cortázar, Olga Orozco, la Molloy, lo psicanalista Léon Ostrov), le molte maschere, prima fra tutte quella di bambina orfana della propria infanzia, che Pizarnik non poteva fare a meno di indossare. Ma in primo luogo ci mostrano un retrobottega letterario complesso e quanto mai interessante, cui farebbe da perfetta epigrafe la risposta data da Alejandra durante un’intervista del 1972: “Anche se essere donna non mi impedisce di scrivere, credo che valga la pena di partire da una lucidità esasperata. Per cui affermo che essere nata donna è una sfortuna, come lo è essere ebreo, essere negro, essere poeta, essere argentino, ecc. È chiaro che la cosa importante è quel che facciamo delle nostre sfortune”.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel luglio del 2015

Da leggere: Hebe Uhart


Hebe Uhart





Hebe Uhart, il romanzo breve di una maestra del racconto 

Racconta la scrittrice Mariana Enriquez che non molti anni fa, in uno storico hotel argentino, si tenne un convegno cui parteciparono tra gli altri Rodolfo Fogwill ed Hebe Uhart, due autori agli antipodi. Fogwill, scrittore straordinario e critico severissimo, accolse la Uhart ripetendo a gran voce un giudizio che aveva espresso più volte e che, venendo da lui, rappresentava una consacrazione: “La migliore scrittrice argentina!”. Lei, schiva e riservata, rispose con un secco: “Dejate de joder”. Ma Fogwill, scomparso nel 2010, in un certo senso non ha mai smesso di “joder”, perché quell’apprezzamento riaffiora ancora oggi in tutti gli articoli sulla scrittrice e nelle quarte di copertina dei suoi libri, compresa quella di Traslochi, piccolo romanzo uscito per la prima volta nel 1995 e ora apparso in italiano per la nuova collana Calabuig della Jaca Book, nell’ottima versione di Maria Nicola (pag. 120, e. 12).

Anche se resta il più citato, Fogwill è solo uno tra i tanti estimatori della Uhart, tra i quali si contano Riccardo Piglia ed Elvio Gandolfo, mai stanchi di sottolineare i meriti di una scrittrice troppo a lungo segreta e tuttavia amata da una ristretta cerchia di lettori pronti ad afferrare al volo i suoi libri, affidati a piccoli editori dall’esistenza travagliata e destinati a sparire con essi. Solo da una decina d’anni, infatti, l’autrice è approdata a case editrici meno instabili (per esempio all’indipendente e solida Adriana Hidalgo, che pubblica anche le sue splendide cronache di viaggio, o alla sofisticata Interzona), fino alla pubblicazione nel 2010 dei Relatos reunidos da parte di Alfaguara, marchio importante che ha garantito adeguata circolazione a testi ormai introvabili come La elevación de Maruja, Camilo asciende, Memorias de un pigmeo, Guiando la hiedra, Señorita, prodotti nel corso di una carriera iniziata nel 1962, quando Hebe Uhart stava per laurearsi in filosofia (materia che ha poi insegnato per molti anni all’Università, al fianco di Thomas Abraham).

Traslochi, primo titolo della Uhart tradotto in Italia, è un esempio perfetto del suo universo narrativo: la storia di una famiglia di immigrati, costruita sommando nitide immagini quotidiane di una precisione quasi fotografica. Chi conosca la vicenda personale dell’autrice – nata e cresciuta a Moreno, un paesetto vicino a Buenos Aires, in una famiglia di origini italiane e basche – potrebbe trovarne traccia in queste pagine che raccontano di eventi minimi e vite qualunque. Ma l’elemento autobiografico sfuma sino a perdere importanza, grazie all’uso di una terza persona da cui traspare uno sguardo attentissimo che osserva e registra ogni cosa, anche la più familiare, come se la vedesse per la prima volta, trasmettendoci un senso di straniamento lieve e inquietante; ed è appunto questo modo di guardare, insieme un’eccezionale capacità di ascolto riflessa in un linguaggio che dà minutamente conto dell’oralità e della parlata popolare, a modellare le frasi brevi e terse della narrazione e a fare da collante tra i temi e i personaggi che la Uhart predilige: vecchi e donne, adolescenti alla scoperta di sé, bambini che ci trasmettono una dura visione del mondo adulto, e poi la vita di un villaggio che sta per diventare piccola città, le solitudini che abitano Buenos Aires, la scuola, la frattura tra “seconde generazioni” e padri immigrati.

Una storia fatta di spostamenti a volte impercettibili ma continui, quella di Traslochi: la modesta ascesa verso un’altra classe sociale, il trasferimento nella capitale, i cambiamenti di domicilio e di lavoro, di abitudini e anche di linguaggio, là dove i figli, più istruiti e ormai argentini, si allontanano dal cocoliche materno. E si trasloca anche da un personaggio a un altro, mentre dal gruppo emergono via via i primi piani di figure pronte a farsi raccontare con leggerezza, anche in presenza della morte e della malattia o della follia perentoria, vociante e senza spiegazioni in cui scivola Maria, l’unica figlia femmina della famiglia.

Romanzo ricco di sfumature di suggestioni profonde, che con le sue centoventi pagine conferma il culto per la brevità di una maestra del racconto, Traslochi induce a chiedersi come mai questa outsider quasi ottantenne sia stata riconosciuta così tardi per ciò che è, ossia qualcuno “di cui si dice una sola cosa: che è la migliore”, come sottolinea Leila Guerriero. Ma, quale che sia la risposta, è certo che la nuova attenzione per la sua opera si deve anche alle giovani ed esigenti generazioni di lettori latinoamericani e alla loro scoperta, compiuta non senza stupore, di un’autrice audacemente minimalista, che non ha nulla da invidiare alle celebratissime Alice Munro o Lydia Davis, con le quali condivide la predilezione per la quotidianità, le piccole cose, gli interni domestici, con in più un sommesso e stralunato umorismo, una profondità e una passione per il dettaglio in cui si avverte l’influsso di colui che la Uhart riconosce come suo unico maestro: l’uruguayano Felisberto Hernández, uno dei più grandi ed eccentrici cuentistas latinoamericani.

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta nel luglio del 2015

Da leggere: Manuel Chaves Nogales


Manuel Chaves Nogales





Le Bestie, gli Eroi e i Martiri di Manuel Chaves Nogales

In un’Europa senza memoria chi si ricorda, oggi, dei campi di concentramento in cui settantasei anni fa la Francia rinchiuse gli spagnoli in fuga, dopo la definitiva sconfitta della Repubblica? “Disfatti, malridotti, furiosi, schiacciati, con la barba lunga, non lavati, sporchi, sudati, stanchi” e tuttavia “il meglio della Spagna” (così li racconta Max Aub), nel giro di tre settimane quasi cinquecentomila profughi varcarono la frontiera a piedi o con mezzi di fortuna e vennero poi stipati nei campi di Argelés-sur-mer, Barm, Gurs, Saint Cyprien e altri ancora, in condizioni definite atroci dallo scrittore catalano-messicano Jordi Soler, figlio e nipote di rifugiati, che ha evocato sul quotidiano El País la memoria di “una pagina oscura della storia di Francia cancellata dalla storia ufficiale”, per poi aggiungere: “Sembra che nel modo di trattare i migranti operi una sinistra simmetria… I cadaveri sospinti dalla onde sulle spiagge di Lampedusa sono l’eco nefasta di quelli che giacevano, non troppo tempo fa, sulla spiaggia di Argelés-sur-mer”.

Altri rifugiati spagnoli, almeno diecimila, fecero in senso inverso il viaggio via mare che oggi compiono i migranti, approdando in Nordafrica su navi come il mercantile Stanbrook – il suo capitano sfidò la volontà degli armatori imbarcando quasi tremila “clandestini” per portarli da Alicante a Orano, verso un destino comunque incerto – mentre ventimila partirono per il Messico grazie al governo di Lázaro Cárdenas, che praticò una straordinaria politica di aiuto ed accoglienza.

Prima di quell’enorme esodo collettivo, però, nel corso dei tre anni di un conflitto durissimo e combattuto ad armi impari c’era stato un lungo stillicidio di partenze e addii. Tra gli altri, quello di uno dei migliori giornalisti spagnoli, Manuel Chaves Nogales, nato a Siviglia nel 1897 e firma illustre di quotidiani e riviste come El Heraldo de Madrid, Estampa e Ahora, nonché convinto sostenitore della Repubblica e del suo ultimo presidente, Manuel Azaña: non appena il governo repubblicano trasferì la sua sede da Madrid a Valencia, nel novembre del 1936, Chaves decise infatti di rifugiarsi a Parigi con la famiglia e là rimase fino al 1940, quando, ricercato dalla Gestapo, partì fortunosamente per Londra, dove sarebbe morto nel 1944 per una fulminea peritonite. Non era, ovviamente, un rifugiato “di lusso”, ma d’eccezione sì: da inviato speciale aveva raccontato l’evolversi del regime sovietico come la nascita del nazismo e del fascismo, in seguito aveva diretto uno dei principali quotidiani spagnoli ed era abbastanza importante e conosciuto perché, al suo arrivo, il governo francese gli assegnasse un modesto appartamento e diversi giornali latinoamericani e francesi gli offrissero di collaborare (più tardi, in Inghilterra, farà parte dell’agenzia di stampa Atlantic-Pacific Press).

Chaves ebbe dunque la fortuna, pur tra le mille difficoltà dell’esilio, di potersi guadagnare da vivere con il suo mestiere (e la sua passione) di sempre, scrivendo incessantemente non solo articoli, ma saggi assai acuti – per esempio Agonia della Francia, del 1941, dura testimonianza sul governo di Vichy, tradotto l’anno scorso in italiano da Hado Lyria per Neri Pozza – che andavano ad aggiungersi ad altre sue opere di successo, come La vuelta a Europa en avión. Un pequeño burgués en la Rusia roja, del 1929, e ancora El maestro Juan Martínez que estaba allí, del ’34, o Juan Belmonte matador de toros (Neri Pozza 2014), splendida biografia di un famosissimo torero. Appena arrivato a Parigi, inoltre, scrisse “a caldo” nove racconti sulla guerra civile destinati al quotidiano argentino La Nación, che nel ’37 furono raccolti da un editore cileno in un volume intitolato A sangre y fuego. Héroes, Bestias y mártires de España, per essere subito tradotti negli Stati Uniti e in Canada: un testo ormai giudicato fondamentale in seno alla vastissima letteratura su un tema ineludibile, e che tuttavia in Spagna rimase praticamente ignoto fino al 1993, quando le opere complete di Chaves vennero pubblicate a cura di María Isabel Cintas Guillén, studiosa sivigliana che si è dedicata alla riscoperta dell’autore, ormai del tutto dimenticato. Toccherà poi ad Andrés Trapiello includere il prologo di A sangre y fuego nel suo discusso saggio Las armas y las letras. Literatura y guerra civil, contribuendo così all’attuale fortuna editoriale degli scritti di Chaves Nogales, riproposti in questi anni: un successo consacrato sia dalla critica che dall’attenzione di scrittori autorevoli come Antonio Muñoz Molina.

Divenuto rapidamente un “classico moderno” di cui vengono riconosciute la qualità estetica e il forte impatto emotivo, A sangre y fuego esce oggi in italiano grazie all’editore La Nuova Frontiera, nell’accurata traduzione di Elisa Tramontin (A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna pag. 327, e. 16): un libro sorprendente, uscito giusto in tempo per rinfrescare la memoria collettiva in vista dell’ottantesimo anniversario della Guerra Civile, che cade l’anno prossimo. Da Massacro, massacro!, sui bombardamenti di Madrid, a E in lontananza, una lucina, con la sua caccia a una rete di spia falangiste che comunicano tra loro grazie a segnali luminosi, fino a I guerrieri marocchini e Le gesta dei cavalieri, dove la stupidità e la violenza senza scampo della guerra, di qualsiasi guerra, sembrano riscattate dal fugace incontro tra nemici che non riescono a rinnegare la propria umanità, le storie di Chaves Nogales testimoniano del talento di un giornalista fedele al motto di Robert Capa (“Se la foto riesce male, vuol dire che non eri abbastanza vicino”), che osserva e descrive quanto lo circonda con un linguaggio pulito e incisivo, ma che allo stesso tempo frequenta, sostenuto da una indiscutibile ambizione letteraria, altri territori del narrare.

In A ferro e fuoco Chaves è senz’altro più scrittore che giornalista e, pur sostenendo che ogni storia si ispira a un fatto vero, per raccontarla ricorre a tutte le armi della letteratura, avvince il lettore con una prosa asciutta, quasi alla Hemingway, esibisce una notevole cura per il linguaggio, ricorre a dialoghi che riproducono fedelmente la parlata popolare, semina immagini folgoranti, disegna paesaggi con pochi ed efficacissimi tocchi e non scorda di aver prodotto a suo tempo anche una sorta di romanzo popolare e sentimentale, La bolchevique enamorada (El amor en la Rusia roja), pubblicato a puntate sulla rivista Estampa. E, soprattutto, ci stupisce per la sua modernità, grazie a quell’abile intreccio tra fiction e non fiction che sembra una caratteristica fondamentale della narrativa contemporanea e che fa di lui un esponente ante litteram della crónica, genere trasversale oggi intensamente praticato e di origini più remote di quanto si tenda ad ammettere.

Quello che i suoi esegeti non mancano di mettere in risalto è il punto di vista relativamente insolito, in seno alla grande narrazione della guerra civile, di qualcuno che si dichiara estraneo a entrambe le parti, per lui accomunate da una medesima barbarie, e che nel prologo dà conto dei motivi di quella che potrebbe sembrare una fuga: “Antifascista e antirivoluzionario per temperamento, mi rifiutavo sistematicamente di credere nelle virtù salvifiche della grandi sollevazioni e aspettavo lavorando, fiducioso nel corso fatale delle leggi dell’evoluzione. Ogni rivoluzionario, con il dovuto rispetto, mi è sempre sembrato deleterio come qualsiasi reazionario. […] Nella mia diserzione pesava tanto il sangue sparso dagli squadroni di assassini che seminavano il terrore rosso a Madrid quanto quello versato dagli aerei di Franco, che hanno ammazzato donne e bambini innocenti”.

Questa dichiarazione non tanto di equidistanza, ma di visione della guerra civile in linea con le convinzioni di un “piccolo borghese liberale, cittadino di una repubblica democratica e parlamentare” (così si autodefinisce Chaves nel prologo) e con quelle della minoranza liberale che comunque aveva creduto nella Repubblica e le era rimasta fedele, è stata usata da alcuni (e in particolare da Trapiello) per fornire sostegno alle tesi sull’esistenza di una “terza Spagna”, cioè di una maggioranza silenziosa e impotente trascinata, lo volesse o no, in un cruento scontro fratricida da due minoranze fanatiche, due “opposti estremismi” votati a ideologie diverse ma speculari e identicamente totalitarie. Di questa terza Spagna (della quale, non dimentichiamolo, tentò di accreditarsi come rappresentante e interprete il primo Aznar, quello degli anni ’90), Chaves Nogales rischia oggi di trasformarsi in una sorta di santino o di bandiera, forse al di là del suo disagio di fronte agli eccessi di entrambe le parti e della sua speranza delusa in “… uno Stato in cui sia possibile la convivenza umana tra cittadini di idee diverse e la normale relazione con gli altri stati”. Attorno ai racconti di A ferro e fuoco, e soprattutto al citatissimo prologo, si è così sviluppata una polemica che, pur riconoscendo l’interesse oggettivo e il valore dell’opera, ne ha criticato vivacemente la lettura in chiave apertamente revisionista fatta da Trapiello e altri, e che traspare anche nel “corto” El hombre que estaba allí realizzato nel 2013 da Daniel Suberviola e Luis Felipe Torrente e dedicato alla vita e all’opera del giornalista.

Tra i tanti che hanno polemizzato con quello che Antonio Muñoz Molina ha definito chavesnogalismo, ci sono anche il critico José Luis García Martín, che non ha mancato di sottolineare le inesattezze e le contraddizioni del famoso prologo, e lo storico Francisco Espinosa Maestre, che ha dedicato una lunga e puntuale analisi a Chaves Nogales e all’uso che si è fatto di alcuni dei suoi scritti, per “offrire una visione negativa e caotica della Repubblica e farci credere che la guerra, in cui tutti furono uguali, fu inevitabile”. E, nell’accingersi a leggere A ferro e fuoco, queste parole vanno costantemente tenute presenti, non solo perché rivelatrici delle molte difficoltà che continuano ad accompagnare il recupero della “memoria storica” nella Spagna di oggi, ma anche perchè aiutano il lettore di oggi a collocare i testi di Chaves Nogales nel loro contesto, evitando travisamenti e strumentalizzazioni.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel giugno del 2015