lunedì 9 marzo 2015

Da leggere: Daniel Sada


Daniel Sada




Il gioco del linguaggio di Daniel Sada

“Davanti agli oltre centomila omicidi e ai trentamila desaparecidos provocati dalla presunta “guerra” contro le droghe del presidente Felipe Calderón, la narrativa messicana non è stata all’altezza della catastrofe politica che si nasconde in ciò che con eccessiva disinvoltura chiamiamo narco. […] Com’è frequente nella musica popolare, nel cinema e nell’arte concettuale sul narco, la maggioranza dei narcoromanzi scritti nella prima decade del XXI secolo affrontano il fenomeno in modo politicamente neutro”.

Il severo giudizio sulla vasta produzione “narcoculturale” è di Oswaldo Zavala – studioso messicano da tempo trapiantato negli Stati Uniti, dove insegna al CUNY Graduate Center –, che molto ha scritto sulla letteratura nata nel nord del Messico e sulla sua mitologia. Secondo Zavala, gran parte dei romanzi messicani sul narcotraffico si adatta in realtà al discorso governativo, che attribuisce la tragica situazione del paese solo a un’interminabile lotta fra cartelli della droga decisi a sfidare, erodere e perfino sostituire l’autorità dello Stato; ed è proprio perché sorvola quasi sempre sulla “dimensione criminosa” e la violenza del potere ufficiale, non inferiore a quella dei cartelli, che un filone di grande successo come la cosiddetta narcoliteratura rischia oggi di prosperare su luoghi comuni e formule quasi meccaniche, diventando parte di un panorama dominato “da opere commerciali, depoliticizzate, frivole e irrilevanti”.

Un’eccezione alla regola, dice lo studioso messicano, è però rappresentata da Daniel Sada, scomparso nel 2011 a cinquantotto anni, lasciando alle “vaste minoranze” dei suoi lettori ben undici romanzi, otto raccolte di racconti e tre di versi: uno scrittore che per ragioni diverse e ben motivate è stato via via accostato a Lezama Lima, a Rulfo e a Gadda (non a caso il protagonista del racconto di Sada Atrás quedó lo disperso ha l’abitudine di distribuire copie di El zafarrancho aquel de via Merulana, ovvero del celebre Pasticciaccio), ma che, al di là di ogni suggestione, è reso unico da una personalissima ricerca formale, da incessanti invenzioni lessicali, dal travaso del rigore e della musicalità della poesia classica nella prosa moderna, e infine dalla conversione dell’oralità popolare in sofisticato linguaggio letterario, a testimonianza di quella che lui stesso ha definito “una scommessa sulle qualità della lingua”.

Benché Sada si sia sempre rifiutato di proporsi come uno scrittore apertamente politico o di denuncia, alla José Revueltas, Zavala sostiene giustamente che l’analisi dei meccanismi formali della sua opera ha fatto passare in secondo piano la dimensione politica ed etica sottesa a un così peculiare uso del linguaggio, e indica due romanzi, scritti a distanza di anni, come chiavi utili a interpretare il presente del Messico: Porque parece mentira la verdad nunca se sabe (1999), considerato il capolavoro sadiano, e El lenguaje del juego (2012), uscito postumo, che viene ora pubblicato dall’editore Del Vecchio (Il linguaggio del gioco, traduzione di Carlo Alberto Montalto, pag. 241, e. 15) cui dobbiamo anche l’apparizione, due anni fa, del magnifico Quasi mai. In entrambi, la scrittura di Sada dà vita a un fiume di storie che scorre in uno dei luoghi più aridi e desolati del continente americano, il deserto a cavallo della Frontiera, sfondo costante sia della migrazione che ha portato negli USA milioni di messicani, sia del narcotraffico.

In Il linguaggio del gioco, Sada ha vinto per la prima volta la propria riluttanza a trattare temi strettamente legati alla narconovela, da lui considerata una moda esecrabile; era consapevole, infatti, di come fosse impossibile raccontare ancora del deserto dov’era nato e cresciuto e in cui la sua narrativa è saldamente radicata, senza tenere presenti le profonde trasformazioni indotte dalla violenza dei cartelli e da quella parallela dello Stato. L’argomento non poteva né doveva essere eluso, insomma, ma Sada è riuscito a trattarlo in modo imprevedibile, scegliendo, sottolinea il critico Federico Campbell, di fare del narco non un testo, ma un contesto all’interno del quale i personaggi si muovono alla ricerca della propria identità e tentano di costruirsi un’esistenza serena, come accade a Valente Montaño, che per diciotto volte ha varcato clandestinamente la frontiera, vivendo da indocumentado negli Stati Uniti, per essere puntualmente scoperto e deportato.

La diciottesima volta, però, è diversa dalle altre, perché Valente ha ormai messo da parte abbastanza denaro per aprire, insieme alla moglie Yolanda e ai figli Martina e Candelario, una pizzeria (l’unica e sola, in terra di tortillas) nel piccolo e sonnolento paese di San Gregorio, perso nel deserto: un posto dove non succede mai nulla, proprio come a Remadrín, la cittadina di Porque parece mentira; ma tanta quiete verrà spazzata via da una violenza uguale e diversa: quella dell’esercito a Remadrín, dove una truffa elettorale ha scatenato un massacro, e quella del narcotraffico a San Gregorio, luogo considerato strategico da due cartelli rivali e pronto a diventare il palcoscenico di un confronto sanguinoso al quale i partiti, la chiesa, le istituzioni, la polizia e gli abitanti sembrano attivamente adattarsi. La vita dei Montaño, assorti fino a poco prima in un laborioso “sogno messicano” fatto di duro lavoro, onore e risparmio, verrà così devastata – come, del resto, quella di tutti gli altri – e la famiglia si disintegrerà, mentre Candelario diventa un sicario e poi un piccolo boss, e Martina va incontro alla violenza estrema di un compagno brutale, a sua volta torturato e ucciso dai trafficanti.

La decomposizione sociale, familiare e individuale viene registrata passo dopo passo, il sangue che scorre a fiumi e i dettagli cruenti sono puntualmente descritti, finché il romanzo si trasforma in un viaggio delirante e la storia dei Montaño sembra adombrare quella di una nazione intera. Eppure Sada non rinuncia mai a un tono quasi picaresco, all’approccio comico e satirico, allo humour nerissimo che sono tra le sue caratteristiche principali e sembrano sgorgare spontanei da una voce narrante, che, senza rivelarsi, si intromette, svela dettagli nascosti e sollecita il giudizio del lettore, non risparmiandogli il proprio, spesso crudele ma non immune da un certo disincantato affetto per i personaggi.

Chi ha letto Quasi mai riconoscerà all’istante questa voce, che è indubbiamente la stessa, ma potrà anche misurare la distanza tra il nord del Messico di quarant’anni fa, descritto in quel lungo e magistrale romanzo, e il Messico di oggi (che l’autore, sempre pronto a distorcere e reinventare i nomi di regioni e città, chiama Mágico) raccontato in Il linguaggio del gioco: una volta disseminato di villaggi isolati e pigre cittadine prigionieri di un tempo immobile, il deserto si è fatto frenetico, i suoi centri abitati oscillano tra uno sviluppo caotico e improvvise devastazioni. E anche la prosa di Sada, rispetto a quella lenta e sontuosa di Quasi mai, si adatta al cambio di passo e ricorre a frasi brevissime, cerca un ritmo più rapido, diventa concisa e concentrata, ma non per questo meno “sadiana”: il linguaggio continua a intrecciare arcaismi e neologismi con elementi poetici e regionali, creando uno stile inconfondibile e mettendo a dura prova il traduttore che, inevitabilmente, può solo in parte restituirlo in italiano. Ma chi traduce, come chi legge, non potrà negare che valga almeno la pena di provarci.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel marzo 2015

giovedì 5 marzo 2015

Anniversari e Addii: Francisco “Paco” González Ledesma


Francisco “Paco” González Ledesma






Per le strade di Barcellona

Per innumerevoli lettori degli anni ’50 e ’60 era Silver Kane, popolarissimo autore di almeno un migliaio di western abilmente costruiti; per le divoratrici di romanzi sentimentali, invece, in quello stesso periodo era Rosa Alcázar o Silvia Valdemar, entrambe instancabili confezionatrici di storie d’amore a lieto fine; per chi preferiva la suspense si chiamava Taylor Mummy, e molti anni dopo sarebbe diventato Enrique Moriel, a beneficio di quanti apprezzano i più esoterici misteri del fantastico urbano.

Ma in realtà era sempre lui, Francisco “Paco” González Ledesma, nato nel 1927 a Barcellona, la città dove è morto lunedì 2 marzo, a quindici giorni dal suo ottantottesimo compleanno: prima ancora che una macchina per narrare così instancabile da potersi paragonare a Georges Simenon (anche lui, in gioventù, forsennato produttore di storie nascosto dietro svariati pseudonimi), un uomo di straordinaria umanità, rigore morale e fedeltà alle proprie idee, e anche uno dei pochi romanzieri popolari spagnoli che sia riuscito a diventare uno scrittore tout court, pubblicato da grandi editori e tradotto in diverse lingue, grazie a un certo numero di romanzi non di “genere” e soprattutto agli undici pregevoli polizieschi che hanno come protagonista il sarcastico e malinconico ispettore Méndez.

Di Ledesma il pubblico italiano conosce almeno sette romanzi della serie Méndez, proposti con un certo successo nel nostro paese da editori diversi (Hobby & Work, Mondadori, Giano, Giunti), cui si aggiungono un fantasy ambientato a Barcellona e firmato Enrique Moriel (La città senza tempo, Bompiani 2009), e un magnifico, crudo noir sulla transizione dal franchismo alla democrazia intitolato Soldados (Meridiano Zero 1999).

Non è mai stato tradotto, invece, quello che per alcuni è il suo libro migliore, ovvero Historia de mis calles (2006), un’autobiografia in cui lo scrittore narra la sua infanzia di bambino povero e precoce (i primi racconti li scrisse a dodici anni) cresciuto per le strade del Poble Sec, e gli anni di studio e di lavoro che gli permisero di laurearsi in legge, per poi scoprire che la professione di avvocato non faceva per lui e guadagnarsi la vita prima scrivendo un paio di romanzi alla settimana per l’Editorial Bruguera – regina della stampa popolare che sfruttava un piccolo esercito di disegnatori e anonimi scrittori – e poi dedicandosi al giornalismo.

Partito dallo scalino più basso e grazie a un lungo e minuzioso apprendistato, Ledesma divenne infine capo redattore del quotidiano La Vanguardia, ma non smise mai di dedicarsi alla narrativa, la sua passione più autentica. A ventun anni non aveva forse aveva vinto con Sombras viejas il Premio Nacional de Novela, istituito dall’editore Janés e assegnato da una giuria di cui faceva parte Somerset Maugham? Il libro, giudicato “comunista e pornografico” dalla censura franchista, non si poté stampare se non dopo la fine del regime, e a Ledesma fu impedito di pubblicare fino al 1977; ma nel 1983 ecco apparire finalmente e con immediata fortuna il primo libro in cui si affaccia Ricardo Méndez: Expediente Barcelona, subito premiato e subito tradotto da Gallimard, con un successo perfino superiore a quello ottenuto in Spagna.

Sgradito ai suoi superiori sia durante il franchismo che in democrazia perché incline all’insubordinazione, anticonformista, poco rispettoso della legge ma rispettosissimo della propria idea di giustizia e, come se non bastasse, appassionato lettore, tanto da condividere con montagne di libri il suo piccolo appartamento vicino ai Drassanes, gli antichi cantieri navali di Barcellona, Méndez è un poliziotto indimenticabile e insospettabilmente sentimentale dietro una dura scorza di cinismo. Per raccontare le sue indagini, inutile dirlo, l’energica, chiara ed efficacissima scrittura di Ledesma ha ampiamente attinto non solo all’enorme mestiere maturato quando era un anonimo macina-storie, ma anche all’esperienza di giornalista per nulla incline ai compromessi e abituato a ficcare il naso dietro le quinte del potere: un potere impietosamente dissezionato e messo alla berlina in ogni pagina della serie Méndez, inscrivibile in una sorta di hard boiled mediterraneo che, proprio come Historia de mis calles, è anche lo specchio di sessant’anni di storia spagnola e catalana, del cambiamento profondo di una società, dell’evoluzione di costumi e malcostumi.

Ma soprattutto è il ritratto di una città e dei suoi tanti, diversi volti: la Barcellona ribelle e proletaria devastata dalla guerra civile e da un tragico e grigio dopoguerra, quando il franchismo cercò di piegarla definitivamente e di cancellarne la lingua e la cultura; la Barcellona pre-olimpica con le sue stradine sudice, i suoi bar, la sua gente povera e solidale, il suo popolo notturno di emarginati, di cui Ledesma non smise mai di aver nostalgia; la rampante Barcellona post-franchista, città d’affari e di speculazioni ma anche insolito crogiolo intellettuale; la Barcellona dei nostri giorni, oppressa da un devastante turismo di massa ma decisa a non farsi impunemente sopraffare…

Ed è proprio Barcellona, in realtà, la vera, amatissima protagonista dei libri di Ledesma, amata, odiata, rimproverata, rimpianta… una città di cui pochi hanno saputo raccontare come lui le ombre e le luci, e che in questi giorni lo ha salutato con enorme affetto.

 

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel marzo 2015