lunedì 19 ottobre 2015

Da leggere: Juan José Saer


Juan José Saer




Juan José Saer, l’arcano 

Anche i lettori italiani, grazie alle traduzioni degli ultimi anni, riconoscono ormai l’argentino Juan José Saer come uno dei più grandi scrittori contemporanei, ma non tutti, forse, ricordano che la sua prima opera apparsa nella nostra lingua è L’arcano, riproposta oggi da La Nuova Frontiera (pag. 159, e. 15,50) nella stessa ottima versione curata nel ’94 per Giunti da un’ispanista sperimentata come Luisa Pranzetti: un romanzo pubblicato contemporaneamente in spagnolo e francese oltre un decennio prima, arrivato da noi in ritardo (o forse troppo in anticipo, vista l’indifferenza con cui venne accolto), e che aveva segnato una svolta nel percorso di uno scrittore la cui grandezza cominciava appena a essere intuita dalla critica.

Negli anni ’70, infatti, l’influenza del nouveau roman aveva indotto Saer – uno dei pochi autori argentini capace di sottrarsi alla soffocante fascinazione esercitata da Borges – a dilatare la ricerca formale rigorosa e complessa che già caratterizzava la sua narrativa, fino a produrre antiromanzi come El limonero real e Glosa: un cammino che, se perseguito fino in fondo, avrebbe potuto condurlo a un’astrazione prossima all’illeggibilità e al silenzio. L’arcano, pur non allontanandosi troppo dalle ossessioni dell’autore e dalla sua idea di narrativa – già ben definite nel romanzo d’esordio, Responso, e ancora di più in quello della sua prima maturità, Cicatrici (La Nuova Frontiera 2012) –, non esclude invece le ragioni della trama e sembra volgersi (anche se l’apparente rivisitazione di generi letterari diversi si rivela un semplice pretesto intertestuale) verso il romanzo storico e la cronaca di viaggio; non a caso lo spunto veniva, racconta lo stesso Saer, dalla lettura della Historia argentina di Busaniche, in cui si parla brevemente di Francisco del Puerto, mozzo su una delle navi spagnole al comando di Juan Díaz de Solís, che avevano raggiunto e risalito nel 1516 il Río de la Plata, per cercare un passaggio tra Atlantico e Pacifico. Solís e alcuni marinai erano scesi a terra, dove gli indigeni li avevano uccisi e divorati, e, mentre la caravella ripartiva, nessuno si era accorto che il mozzo era scampato al massacro; gli indios lo avrebbero tenuto con loro per dieci anni, fino all’avvistamento casuale di una nave spagnola della spedizione Caboto, alla quale l’avrebbero restituito.

“La storia mi sedusse all’istante e decisi di non leggere altro sulla vicenda, per poter immaginare più liberamente il racconto. L’unica cosa che conservai furono quelle quattordici righe”, scrive Saer ventisette anni dopo la prima uscita del romanzo, affermando di aver scelto come “personaggio collettivo” la tribù estinta e quasi sconosciuta dei Colastiné, per poter creare senza impacci etnologici un deuteragonista da affiancare al mozzo, voce narrante alla quale non viene mai dato un nome. E nemmeno i luoghi in cui L’arcano si svolge sono mai nominati, compreso quello della prigionia, indicato solo come un qualche punto delle Indie perso nel cosiddetto mar dulce, unica evidente allusione all’immenso estuario in cui confluiscono i fiumi Uruguay e Paraná (è sulle rive di quest’ultimo, tra l’altro, che lo scrittore santafesino è nato e cresciuto, trasformandolo poi nella Zona, sfondo e protagonista di quasi tutta la sua opera).

Basterebbero questa vaghezza e la rinuncia alla toponomastica o alle date, insieme alla non linearità del racconto e alla sua adesione ai ritmi capricciosi del ricordo individuale, a farci intendere che L’arcano non è quello che a prima vista potrebbe sembrare. Non un “nuovo romanzo storico latinoamericano”, etichetta applicata da Ángel Rama a Yo, el supremo di Roa Bastos o a Terra nostra di Fuentes, perché Saer non era interessato a una ricostruzione attendibile degli eventi, tanto che tutte le sue incursioni nel passato (oltre a L’arcano, La nubes e La ocasión, considerati, non del tutto a ragione, altrettante cesure nell’insieme dell’opera saeriana, in cui racconti e romanzi tendono a comporre un unicum basato sui medesimi luoghi e personaggi) si potrebbero definire antistoriche. Non un classico romanzo di viaggio e d’avventura, perché non ne possiede l’intenzione di intrattenere e stupire. Non un romanzo picaresco, anche se il protagonista è un orfano alla ventura: alla sua vita errante, infatti, vengono dedicate poche e succinte pagine, che negano spazio all’affacciarsi di un Lazarillo. Non si tratta, infine, di un memoriale, anche se l’autenticità della memoria e il suo legame con l’immaginazione sono uno dei punti cardinali del romanzo. Sin dalle prime righe, L’arcano si rivela piuttosto una perfetta fabula filosofica in cui l’autore dà forma di racconto a questioni che da sempre lo assillano: la natura del linguaggio e la sua capacità di modellare l’essere umano, il rapporto tra spazio e tempo, l’esistenza di un Luogo che contiene tutti gli altri, la precarietà e inafferrabilità del reale, concepito come qualcosa che continuamente ci sfugge e continuamente deve essere ricostruito e ricreato attraverso la scrittura (ma a quel punto è già diventato un’altra cosa, che la si chiami memoria o letteratura…).

Diversi sia dai barbari selvaggi cui i contemporanei del protagonista stentavano a riconoscere il possesso di un’anima, sia da quelli idealizzati nel diciottesimo secolo, gli indios Colastiné sono sì antropofagi, ma solo una volta all’anno, quando organizzano un grande banchetto di carne umana e una sbornia collettiva, seguiti da un’epica orgia che Saer descrive con fredda minuzia; sempre, però, lasciano in vita il prigioniero che trattano con riguardo e che li vede tornare lentamente a una vita industriosa e austera; qualcuno, insomma, capace di guardarli dal di fuori, che funga da legame con un esterno inimmaginabile e perciò temuto, e che, una volta tornato dai suoi, tramandi quanto ha visto. È questo il compito affidato al mozzo, la cui indispensabile alterità viene coltivata con cura (gli indios non gli insegnano la loro lingua fragile e informe, né cercano di farlo diventare uno della tribù) e sottolineata dall’uso continuo del vocabolo def-ghi, qualcosa di simile a “testimone”: un estraneo che deve farsi veicolo di immortalità per la tribù, impegnata in piccoli riti ossessivi destinati a evitare la disintegrazione del mondo conosciuto, l’unico possibile. E anche l’orgia antropofaga è un rito, il più importante, che per riaffermare e consolidare l’esistenza di un universo ordinato e riconoscibile esige un periodico scivolamento nel caos primigenio del desiderio.

L’antico mozzo lo capirà molto tempo dopo, in una patria matrigna dove sarà via via una meraviglia da esibire, ma contaminata al punto da aver dimenticato la lingua nativa, poi il pupillo del prete Quesada, che gli insegna a leggere a scrivere e lo introduce allo studio e alla cultura, quindi un attore girovago che mette in scena con successo l’esperienza fatta oltremare. Solo dopo aver vissuto lungamente da entenado (El entenado è il titolo originale del libro: un termine che indica il figliastro, o anche colui che viene allevato da estranei), il vagabondo può fermarsi, adottare tre orfani e aprire una florida stamperia, approdando, in vista della morte, alla quiete e soprattutto a una scrittura “vera”, dopo averne praticate di false e ingannevoli come il resoconto delle sue avventure raccolto da padre Quesada, o la commedia sui “selvaggi” nata per compiacere l’immaginario degli europei e il loro gusto per l’esotico e il meraviglioso.

Sessant’anni dopo, portato a termine il viaggio che lo ha trasformato da entenado a padre di entenados, rinato più e più volte sino a riconoscersi come narratore, il protagonista compie infine la missione che gli indios gli hanno affidato. Ed è così che nasce un racconto fatto di frammenti, in cui gli anni volano, brillano immagini remote e l’incatenarsi delle riflessioni sovrasta, circonda, illumina i fatti, simile alla “abbondanza del cielo” che abbacinava il mozzo sulle coste vuote delle Indie, come per confermare ancora una volta – nota Florencia Abbate, studiosa acuta dell’opera di Saer – “la funzione redentrice della scrittura del ricordo.

 

 Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’ottobre 2015

lunedì 5 ottobre 2015

Da leggere: Oswaldo Reynoso


Oswaldo Reynoso



Un classico vivente

Ottobre, a Lima, è il mese in cui immense processioni attraversano la città, accompagnate dalla musica della banda, dai fumi dell’incenso e del cibo venduto a ogni angolo, dai canti e dagli applausi rivolti al Señor de los Milagros, copia su tela di una figura miracolosa che da trecento anni viene portata a spalla per le strade. L’immagine originale, un Cristo crocifisso dipinto nel diciassettesimo secolo da uno dei tanti schiavi africani, venne giudicata miracolosa dopo che il fragile muro di adobe su cui era dipinta resistette a due terremoti, e oggi il Signore dei Miracoli è il patrono ufficiale dei peruviani “residenti e migranti”, che accompagna in ogni angolo del mondo i suoi fedeli, tradizionalmente vestiti di viola cupo e bianco.

È questa lentissima processione, con la sua solennità barocca e le sue coloriture pagane, a fare insieme da fondale e da cornice a Niente miracoli a ottobre (pag. 279, e. 16), primo romanzo di Oswaldo Reynoso, un autore ancora sconosciuto in Europa e che tuttavia, dice il suo giovane collega Enrique Plana, “è il maestro di ogni scrittore peruviano sotto i cinquant’anni”. Di anni Reynoso ne ha ormai ottantaquattro (appartiene alla cosiddetta Generazione del ’50, come Vargas Llosa, Bryce Echenique e Ribeyro, per citare nomi noti anche da noi) e i suoi testi più famosi e discussi risalgono alla prima metà degli anni ’60; del 1961 è Los Inocentes, libro d’esordio composto da cinque insuperabili racconti sui ragazzi di strada limeños, mentre Niente miracoli a ottobre, appena tradotto da Federica Niola per Sur, è apparso per la prima volta nel 1965. Ed entrambi hanno attirato a suo tempo anatemi critici di insolita violenza: oltre a una fascinazione per “la morbosità, l’immondizia, la perversione, la pornografia, l’abiezione”, all’autore veniva rinfacciato il fatto di essere “un marxista rabbioso” che bisognava escludere dall’insegnamento, il mestiere con cui si è sempre guadagnato da vivere.

Di essere marxista, omosessuale e ateo, Reynoso non aveva mai fatto mistero, ed era inevitabile che, nel cauto cerchio della letteratura peruviana ufficiale, l’irruzione dei suoi personaggi consegnati alla disperazione, alla rabbia e alla rivolta, con la loro intensa corporeità abitata dalla violenza e dal desiderio, facesse deflagrare un’esagerata indignazione. A difendere la novità e il vigore di quei libri furono Arguedas, Vargas Llosa, pochi critici avveduti e Miguel Gutiérrez, fondatore con Reynoso del gruppo Narración (un vero specchio dei primi anni ’70 e delle loro ansie rivoluzionarie). Ma, ben più dei critici, è stato un pubblico giovane, vasto e fedele a garantire innumerevoli ristampe alle piccole case editrici con cui Reynoso preferisce pubblicare anche oggi che viene ritenuto un “classico vivente”, autore di una decina di libri fondamentali tra romanzi, racconti e poesie, apparsi a lunghi intervalli perché riscritti e corretti all’infinito.

Niente miracoli a ottobre si svolge nell’arco temporale di quattordici ore, a partire dalla mattina grigia e viola di una giornata in cui poteri diversi, economico, politico, militare, religioso, esibiscono la propria forza attraverso la processione, mentre una folla di personaggi si muove tra il centro cittadino, affollatissimo di corpi che si strusciano, si affrontano, soccombono, i quartieri appena decorosi della piccola borghesia e le barriadas proletarie, le baraccopoli di una Lima che in quegli anni affrontava l’assalto di migliaia di contadini (un inurbamento cui non corrispondevano le necessità di un vero sviluppo industriale), e che stava per affrontare un nuovo colpo di stato militare e l’avvento della lotta armata del MRTA e di Sendero Luminoso.

Costruito per capitoli basati sul punto di vista, la voce o il monologo interiore dei diversi protagonisti, il romanzo procede turbinosamente verso una progressiva frammentazione, che nel finale diventa estrema e si spezza in singole frasi, a formare una costellazione di violenze piccole e grandi, enumerate, allineate: cariche della polizia, lanci di pietre, donne stuprate, pianti silenziosi, bordelli incendiati, prostitute in parata e l’offerta di un ultimo brandello della sorte di ciascun personaggio. Ecco i Colmenares, famiglia di classe media ansiosa di mantenere il decoro, ma in procinto di scivolare nella desolazione delle barriadas senza acqua né luce: il paziente capofamiglia vaga in cerca di un appartamento che non può permettersi, la figlia scivola insensibilmente nella prostituzione, la madre sfinita invoca il Signore dei Miracoli, il figlio minore si lega a una banda di strada e il maggiore, già vinto, cerca di scuotersi facendo “qualcosa di violento”, sacrilego e imperdonabile.

Ed ecco il ricco don Manuel, obeso, potente e fin troppo grottesco, che ordisce colpi di stato e compra giovani amanti come Tito, capace però di inattese rivolte. Ecco Leonardo, il professore di sinistra, tutto discorsi teorici ma ben poco votato all’azione e probabile alter ego dell’autore, che viene presentato con un filo di ironia. Soprattutto, ecco la città, simile a un allucinato diorama che l’autore si china ad osservare, incarnandosi di volta in volta nei suoi personaggi e facendoci percepire gli odori pesanti, le superfici, i colori, i suoni, quasi a sollecitare tutti i sensi; un cupo spazio urbano percorso da bande giovanili crudeli ma anche innocenti, un luogo in cui il sacro si manifesta con esaltazione, ma dove di sacro non c’è niente (perfino il generale San Martín, il padre della patria, viene deriso nell’incipit, e le tuniche viola delle giovani fedeli nascondono civetterie estreme e curve da palpare), tra correnti non troppo sotterranee di sensualità e di furore, e corpi quasi tangibili: quello molle e caricaturale di don Manuel, quelli efebici degli adolescenti in vendita, quelli già contaminati delle ragazzine, quello della donna sconosciuta che, nel corso della processione, partorisce sul marciapiede.

L’autore sfiora tutti i registri, dalla tragedia alla parodia al pamphlet, legando ogni cosa grazie alla forza della scrittura: perché Reynoso, qui come in Los Inocentes, parte dall’oralità – o meglio dal gergo di strada vivo e spavaldo che si è appropriato della lingua dei colonizzatori e ne ha fatto una creatura mutante e instabile – e la usa per “dare un senso poetico al linguaggio e alla struttura del romanzo” (una vera sfida per qualsiasi traduttore, che può non produrre gli esiti sperati ma che va comunque affrontata).

Viene, naturalmente, da chiedersi che cosa abbia tanto ritardato la scoperta di un autore di tale peso non solo in Europa, ma anche in America latina, dove solo di recente i suoi libri hanno cominciato a diffondersi davvero. C’entrano qualcosa, forse, una singolarità che rifiuta di essere classificata; la dichiarata estraneità di questo vecchio enfant terrible dalla lingua tagliente all’establishment letterario e editoriale; i lunghi silenzi; il volontario isolamento a Pechino, dove Reynoso è vissuto e ha lavorato per dodici anni, in cerca di utopie impossibili, e dove è nato il suo romanzo Los Eunucos inmortales. Quale che sia il motivo, questa prima traduzione italiana ci getta energicamente tra le braccia di uno scrittore sorprendente, che è andato oltre la troppo semplice etichetta di “realismo urbano” per recuperare le lezioni dell’avanguardia, e coniugare così “il principio etico e il principio estetico” che rivendica come fondanti di tutta la sua opera.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel mese di ottobre del 2015