martedì 2 giugno 2015

Anniversari e addii: Osvaldo Lamborghini


Osvaldo Lamborghini




Osvaldo Lamborghini, trent’anni dopo 

Non è durato molto il “rivoluzionario reset” del MACBA, il Museu d’Art Contemporani di Barcellona, annunciato poco più di un anno fa dal suo direttore Bartomeu Marí, il cui regno ha conosciuto successi e controversie, nonché la necessità di far fronte al taglio dei finanziamenti pubblici. E proprio le diminuite risorse economiche hanno spinto Marí a puntare su un rinnovamento dei contenuti, capace di far circolare aria nuova nel candido cubo progettato dall’architetto Richard Meyer e piazzato nel cuore del Raval, il vecchio barrio chino devastato dal turismo, eppure mai veramente addomesticato. Il nuovo corso era affidato a consulenti di prestigio quali lo storico dell’arte Valentí Roma e il filosofo Paul B. Preciado (noto, fino a non molto tempo fa, come Beatriz Preciado, attivista queer e autrice del Manifiesto Contra-sexual), alla cui iniziativa si devono mostre come la splendida La pasión segun Carol Rama, o La Bestia y el soberano, coprodotta con il Württembergischer Kunstverein di Stoccarda, fin troppo chiacchierata per via di una scultura che ritrae l’ex re Juan Carlos sodomizzato da una minatrice boliviana e causa di un maldestro tentativo di censura da parte di Marì, delle sue dimissioni e del licenziamento dei due collaboratori.

Al momento il MACBA è in una situazione di stallo, ma si possono ancora ammirare i fiori all’occhiello del direttore uscente, primo fra tutti una mostra fortemente voluta da Valentí Roma e da lui curata: Teatro Proletario de Cámara, una “prima” assoluta che rivela il lavoro grafico del leggendario scrittore argentino Osvaldo Lamborghini (in italiano esiste, di suo, solo una breve antologia curata da Massimo Rizzante, Il ritorno di Hartz e altre poesie, Scheiwiller 2013), nato a Buenos Aires nel 1940 e morto a quarantacinque anni proprio a Barcellona, dove si era trasferito nel 1981: oltre cinquecento fogli conservati in una vecchia valigia dalla vedova Hanna Muck, nell’appartamento del Born in cui il suo compagno viveva da recluso, lavorando instancabilmente a racconti e poesie, all’imponente romanzo Tadeys e alle opere oggi disposte sulle pareti di una grande sala semicircolare, presidiata da una gigantesca foto di Lamborghini semisdraiato sul suo caotico “laboratorio” domestico. Ovvero il letto di casa, trasformato in un atelier dove ritagliare, manipolare e commentare con una puntuta calligrafia le foto delle riviste pornografiche che alla fine degli anni ’70 avevano invaso la Spagna postfranchista, appositamente comperate da Hanna al mercato domenicale di Sant Antoni: un gioco inesauribile che, a trent’anni dalla prematura scomparsa di Lamborghini, un intelligente percorso espositivo dispiega davanti ai visitatori curiosi di conoscere il complesso universo di un autore oggi fra i più studiati e discussi (basti vedere la notevole raccolta di saggi Y todo el resto es literatura, curata nel 2008 da Juan Dabove e Natalia Brizuela per Interzona, o la monumentale biografia critica di Ricardo Strafacce uscita nello stesso anno presso Mansalva), nonché considerato una sorta di caposcuola segreto, magistrale ma demoniaco, da Roberto Bolaño, che fu suo attento lettore e ne parlò in Derivas de la pesada, un testo del 2002 sulla letteratura argentina, reperibile in italiano nel volume Tra parentesi (Adelphi 2009).

Per molto tempo quello su Lamborghini era stato un discorso sotterraneo, per iniziati, tutto interno a una ristretta cerchia di critici e scrittori amici come César Aira, Héctor Libertella, Tamara Kamenszain, Rodolfo Fogwill, o avversari come Leopoldo Marechal, che del suo primo libro aveva detto: “È perfetto, come una sfera. Però una sfera di merda”. E in effetti non è facile trovare, nella storia della letteratura latinoamericana del ’900, uno scrittore altrettanto “postumo”, che in vita pubblicò ben poco e quel poco quasi clandestinamente; il suo testo d’esordio, El fiord, uscito nel 1969 presso un piccolissimo editore, si poteva comperare solo richiedendolo con una specie di parola d’ordine in un’unica libreria di Buenos Aires, e sorte non molto diversa ebbero Sebregondi retrocede, del 1973, e l’antologia di versi Poemas, del 1980. Qualche racconto, qualche articolo e un certo numero di poesie apparvero inoltre su Literal, la rivista che Lamborghini aveva fondato nel ’73 con Germán Marín e Luis Gusmán, su Dispositio 1, pubblicazione americana che ospitò i poemi Los Tadeys e Die Verneinung, e in altre eterogenee sedi; insieme al disegnatore Gustavo Trigo, lo scrittore realizzò inoltre un bizzaro comic intitolato Marc!, con un eroe libertino e duro a morire.

Tutto qui: ma bastò, già allora, ad avviluppare Lamborghini nella rete di un mito che in parte si nutriva della sua vita precaria, senza domicilio fisso né professione apparente, del suo costante abuso di alcol, del continuo parlare di opere che ancora non aveva scritto e che avrebbe prodotto, invece, negli anni di Barcellona, riempiendo a mano almeno tremila pagine che non tentò neppure di pubblicare (una rinuncia simile a quella di un altro grande “irregolare” argentino, Macedonio Fernández). Solo nel 1988 esce presso le Ediciones del Serba di Barcellona la prima raccolta delle sue opere, curata da César Aira e seguita qualche anno dopo da una più completa edizione in due volumi (Sudamericana, 2003) anch’essa a cura di Aira, sulla cui lettura di Lamborghini alcuni critici – tra gli altri Patricio Pron e Damián Tabarovsky – avanzano però dei dubbi, considerandola il tentativo di normalizzare un autore così indocile e così lontano dall’avanguardia riassorbibile e “beneducata” di cui parla Libertella nel suo saggio Nueva escritura en Latinoamérica. Si deve ad Aira, comunque, l’inizio della fortuna postuma di uno scrittore non facile i cui libri trasudano violenza, sesso, sangue, sperma e feci, mescolati alla politica (Lamborghini fu un acceso militante peronista) fino a produrre allegorie di insostenibile ferocia, quasi un presagio delle future atrocità della dittatura.

“Che cosa possiamo togliere a Lamborghini, perché non sia più Lamborghini?” si chiede Damiàn Tabarovsky nel numero che la rivista Quimera dedicò nel 2009 allo scrittore. E la risposta è, per l’appunto, la violenza, il sesso, la politica, tre elementi che la mostra getta continuamente in faccia al visitatore, ancorandoli allo humour nero e al gusto per la parodia tipici dell’autore ed evidenziando i riferimenti a De Sade (anche lui scrittore recluso ed encamado, cioè “a letto”, sottolinea Preciado), a Lautréamont, Artaud, Bataille, ma anche a una scrittura della crudeltà tutta argentina che nasce nella prima metà del XIX secolo con El matadero di Esteban Echeverría.

Il titolo dell’esposizione è lo stesso di un prezioso libro-oggetto pubblicato nel 2008 in 300 esemplari dall’editore gallego Antxo Rabuñal, che però non utilizzò tutte le immagini lamborghiniane, e definito da Aira, nell’introduzione al bellissimo catalogo edito dal MACBA – El sexo que habla, con ottimi e approfonditi interventi di Alan Pauls, Beatriz Preciado, Valentí Roma, Antonio Jiménez Morato –, “un libro illustrato, un album di ricordi, un museo portatile”. E al Teatro Proletario de Cámara è dedicata anche la prima e più vasta sezione della mostra: “pornografia da edicola manipolata con matite colorate, tempere, acquerelli da scolaro, epigrafi e commenti poetico-politici, che lo scrittore realizzò di notte e per nessuno, come un vampiro in pigiama e pantofole”, scrive Alan Pauls. Nella seconda sezione sono invece raccolti i libretti artigianali, vero esempio di autoedizione in cui si alternano fotomontaggi, cronaca politica, aforismi, versi, mentre la terza riunisce disegni e collages in cui le figure dei politici si innestano su quelle pornografiche, a comporre un aspro ritratto della Spagna di allora e soprattutto della Barcellona preolimpica, città detestata e corrosivamente sbeffeggiata.

Nelle vetrine, infine, sono racchiusi i reperti più curiosi: libri, veri libri di argomento vario, detriti di una editoria inutile, scarti dell’agenzia letteraria in cui Hanna Muck lavorava e che venivano coperti di iscrizioni e commenti, completati con immagini incollate o disegnate, corredati di false copertine: un riciclaggio decostruttivo, si potrebbe dire, che rianima corpi cartacei nati morti e, ancora una volta, li utilizza per confezionare una diario artistico, beffardo e osceno, della realtà politica e sociale. Altre vetrine contengono parte della biblioteca personale di Lamborghini e svelano più di una suggestione visiva (la Transavanguardia italiana, il cinema di Fassbinder, la nuova pittura tedesca, ma anche Goya e il caricaturista Hogarth), il suo profondo interesse per la psicanalisi e infine le sue curiosità: in un angolo si affaccia Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, in un altro spunta John Cage.

L’ermetica, esasperata rivolta che connota l’opera letteraria, diventa in quella grafica ancora più furiosa e si fa esplicita, fino a generare un segno artistico che è anche scrittura e che deforma e riconfigura i corpi, perché, scrive Preciado, “il testo pornografico è per Lamborghini quello che meglio esprime le mutevole relazioni tra politica e desiderio, tra corpo e capitale”. E la mostra aiuta allora a capire come mai il lavoro di un autore la cui estetica pare precorrere i tempi in modo stupefacente, finisca per suscitare, più che interpretazioni, domande e ancora domande: “Può uno scrittore essere marginale e centrale allo stesso tempo? Può la periferia collocarsi al centro e il centro da nessuna parte?” si chiedono gli autori di Y todo el resto es literatura. Insomma, chi era davvero Osvaldo Lamborghini e cosa sta cercando di dirci, a trent’anni dalla morte?

 

 

Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nel maggio del 2015