lunedì 15 giugno 2015

Anniversarii e addii: Juan José Saer


 Juan José Saer




Juan José Saer, Parigi, 11 giugno 2005 

Conferenze, dibattiti, articoli sulle pagine culturali dei più importanti quotidiani di lingua spagnola: quelli destinati a celebrare il decimo anniversario della scomparsa di Juan José Saer, nato nel 1937 e morto a Parigi l’11 giugno del 2005; sono omaggi discreti, in armonia con il “profilo basso” che lo scrittore scelse di tenere nel corso dei suoi sessantasette anni di vita, assorto com’era nella costruzione di un’opera imponente e densa, fuori del comune e ormai inserita nel pantheon dei classici. Chiunque lo conoscesse sapeva del resto che Saer, pur non sottraendosi al confronto – i suoi giudizi, severissimi e taglienti, sfociavano spesso in dure polemiche –, non era né voleva essere uno di quegli autori-personaggio la cui onnipresenza sovrasta la scrittura e al tempo stesso la “promuove”, rendendola adeguatamente consumabile. E chissà se lo avrebbe divertito (oppure no) scoprire che oggi chi compra nelle librerie spagnole o alla Feria del Libro di Madrid la nuova edizione del suo superbo romanzo Glosa – apparso per la prima volta nel 1985 e riproposto proprio in coincidenza con il decennale – riceve in dono un opuscolo intitolato Universo Saer: una trentina di pagine con spunti critici sul suo lavoro, organizzati per temi. Una sorta di piccola guida, insomma, destinata “al profano della materia, per scoprire con intensità diversi aspetti della scrittura e del pensiero” dell’autore, sostiene la Editorial Rayo Verde, eccellente casa editrice barcellonese nata solo tre anni fa, che con questo ricorso a un quasi affettuoso soft marketing sembra sottintendere una sottile sfiducia nel lettore medio, probabilmente ignaro dell’esistenza di qualcuno del quale Ricardo Piglia ha detto: “… i suoi testi sono indimenticabili e dureranno quanto la lingua in cui sono scritti”.

Il fatto è che, con o senza guida alla lettura, la prosa di Saer non è mai stata per lettori medi, specie se desiderosi di puro e peraltro legittimo intrattenimento, e magari ancorati allo stereotipo europeo dello scrittore latinoamericano, mai definitivamente crollato nonostante gli infiniti tentativi di demolizione; per molto tempo questo scrittore “marginale” per scelta e nel senso più glorioso del termine è stato letto da un cerchia ristretta di addetti ai lavori, finché, negli anni ottanta, è cominciata un’ascesa che secondo Beatriz Sarlo ha portato la critica a considerarlo “il più grande scrittore argentino della seconda metà del XX secolo”, radicalmente estraneo, in sintonia con Juan Goytisolo, “a quella prosa raffazzonata e piena di frasi fatte che abbonda nell’universo mediatico dei best seller”. Basterà un opuscolo per incoraggiare un volenteroso lettore medio a sfogliarne i romanzi? Forse no, ma sarebbe già un merito fargli presente la possibilità di avvicinarsi a un autore del genere, meravigliosamente impegnativo e quanto mai seducente (in Italia, dopo alcuni tentativi di Giunti, Nottetempo ed Einaudi, lo pubblica La Nuova Frontiera, che per ottobre ha in programma uno dei suoi libri più noti e importanti, El Entenado, ambientato nell’America della Conquista), i cui romanzi sono, come pochi, capaci di ipnotizzare un lettore e di risucchiarlo in un universo definito e coerente sin dagli esordi.

A partire dall’antologia En la zona, pubblicata a ventitré anni, la traiettoria di questo argentino di seconda generazione, figlio di immigrati siriani nato e cresciuto nella provincia di Santa Fé, è stata caratterizzata da una ricerca estetica rigorosa che, pur nella sua evidente continuità, azzarda ogni volta nuove scommesse e sperimenta strade diverse a partire dalla mutevole percezione della realtà, materia sfuggente, inconoscibile e fluida finché non viene ricreata e “fissata” dalla voce di chi la racconta, attraverso il lento accumularsi di dettagli e minuzie. In Francia, dove era arrivato nel 1968 con una borsa di studio di sei mesi e dove rimase per trentacinque anni, dove ebbe due figli e si sposò per la seconda volta, dove insegnò all’Università di Rennes e scrisse la maggior parte della sua opera, e dove morì per un tumore ai polmoni senza poter concludere il poderoso romanzo La Grande, Saer si era avvicinato all’iperrealismo del nouveau roman, che sembrava rispondere alla sua esigenza di descrivere il mondo per renderlo finalmente rappresentabile. I suoi veri maestri, però, erano altri: innanzitutto il gruppo di amici che a Santa Fé si riunivano attorno a un grande poeta, Juan L. Ortiz, e che si chiamavano Antonio Di Benedetto, Paco Urondo, Hugo Gola, scrittori dal destino diverso (Urondo, militante montonero, si suicidò nel ’76 durante uno scontro a fuoco) accomunati dall’origine provinciale e dall’estraneità al circuito culturale, al potere e al prestigio di Buenos Aires.

Quell’amicizia, quelle lunghe discussioni, quel confronto su temi letterari e politici che di volta in volta li univano e li dividevano, furono fondamentali per Saer, così come lo fu quella che lui chiamava la Zona, il territorio dell’infanzia e della giovinezza: i suoi protagonisti sono appunto amici che si riaffacciano in ogni romanzo e nel corso degli anni non smettono di ritrovarsi e parlare, riflettere ad alta voce, condividere asados e passeggiate all’interno di uno spazio che, secondo Sarlo, non è un semplice sfondo, ma “una materia poetica altrettanto centrale della storia che si racconta”. La Zona è, per Saer, il luogo dove tutto accade, al quale sempre si ritorna (lui lo faceva ogni anno, con un viaggio che sfiorava appena Buenos Aires) e che soprattutto ha caratteri universali, come la Yoknapatawpha di Faulkner o la Santa María di Onetti. E proprio le scritture di Onetti e Faulkner, oltre a quella di Joyce, sono saldi punti di riferimento saeriani, che confluiscono insieme ad altri materiali (i più diversi, cinema incluso) nella sua opera narrativa e saggistica, amalgamandosi e incrociandosi in una prosa la cui forma rivela una passione profonda per la poesia, per il suono, per il ritmo, e che non si limita a raccontare, ma “pensa”, propone, dibatte, suggerisce, senza rinunciare a un discreto humour nero.

Lontano dall’Argentina (il che, diceva, gli permetteva di vederla meglio) e capace di narrarne passato e presente senza mai sfiorare il romanzo storico o il realismo sociale, Saer è a suo modo anche uno scrittore profondamente politico, che scrive sì della dittatura militare, del peronismo, dell’immigrazione o della Conquista, ma lasciando filtrare la Storia attraverso la soggettività dei personaggi e facendone cosa di tutti, ovunque. Lontano dall’Argentina, si manifesta più che mai come poeta che narra (non a caso il suo unico e bellissimo libro di poesie è intitolato El arte de narrar), ma anche come teorico magistrale e appassionato. Lontano dall’Argentina, è uno tra i pochi della sua generazione, se non l’unico, a sottrarsi senza sforzo e sin dall’inizio all’ombra soggiogante di Borges e a metterla in questione da pari a pari, nonché a giudicare il Boom per quello che è stato davvero (un fenomeno più commerciale che letterario), e a ridimensionare scrittori e opere sopravvalutati, facendo notare con lucido acume e solidi argomenti che più di un “re” letterario va in giro nudo. Anche per questo vale la pena di leggerlo, e senza bisogno di opuscoli.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel giugno del 2015

mercoledì 3 giugno 2015

Anniversari e addii: Martín Adán


Martín Adán




Martín Adán, una vita nascosta 

Si chiamava Rafael de la Fuente Benavides ed era nato nel 1908 in un’enorme casa di calle Corazón de Jesús, nel cuore di Lima, dove visse con una terribile zia dopo aver perso ancora bambino i genitori e il fratello. La sua era una famiglia borghese e agiata, la cui lenta rovina gli lasciò solo una piccola rendita sufficiente per vivere al limite della miseria. Mantenere un impiego qualunque gli era impossibile, per via delle frequenti crisi depressive e soprattutto dell’alcolismo in cui era perdutamente sprofondato, uscendone a tratti durante i lunghi ricoveri volontari in manicomio e in cliniche psichiatriche, ma finendo sempre per precipitarvi di nuovo. Una vita oscura, la sua, trascorsa per scelta in estrema solitudine e conclusa nel 1985, mentre a vegliarlo c’era l’amico di sempre Juan Mejía Baca, libraio-editore, che conosceva meglio di chiunque la sua ritrosia, gli anni trascorsi tra pensioni miserabili e poveri alberghetti, le ragioni di un isolamento così assoluto e dell’autoesilio in strutture psichiatriche quali l’ospedale Larco Herrera, la sua unica vera casa, dove non era un paziente ma piuttosto un ospite libero di andare e venire. E libero, soprattutto, di scrivere: perché, con il nome di Martín Adán, Rafael de la Fuente è stato ed è uno dei più grandi poeti latinoamericani del ’900, figura di spicco del gruppo di scrittori che nel primo ventennio del secolo scorso irruppero nella scena letteraria peruviana, sospinti da un vento nuovo arrivato dall’Europa, ma filtrato costantemente attraverso l’esperienza e la sensibilità locale.

A dar loro voce era soprattutto la rivista Amauta, fondata e diretta da José Carlos Mariátegui, che pubblicò frammenti della prima e unica opera in prosa di Adán, La Casa de Cartón, scritta durante l’adolescenza e già straordinaria, una sorta di ritratto in chiave surrealista della società peruviana e della realtà urbana limeña, in cui la tradizione si scontra e si fonde con i tempi nuovi (un’edizione di questa piccola obra maestra l’ha proposta la spagnola Bartataria nel 2009, ma ne esiste anche una versione italiana del 1987, curata da Antonio Melis per la Liviana). Da allora, a parte un saggio sul barocco in Perù che è poi la sua tesi di laurea, Adán non scrisse che poesia, riunita in otto antologie compilate quasi sempre da altri, probabilmente per via della sua estrema riluttanza a separarsi da testi corretti e riscritti sino all’esasperazione, addirittura per anni.

Dopo il breve attraversamento della tardiva (e comunque notevolissima) avanguardia peruviana, che gli permise di sperimentare una libertà, un’irriverenza e un’ironia pronte a riaffacciarsi anche in seguito, tornò a forme metriche più tradizionali (anche se qualcuno ha definito “antisonetti” i prodigiosi componimenti raccolti in Travesía de extramares), senza tralasciare però il verso libero, ricco di coloriture barocche o espressioniste, malinconicamente ironico, profondo, misterioso, consegnato a una ricerca non solo formale, ma anche a quella di un senso sfuggente e perseguito con passione. Oggi più che mai, a trent’anni dalla sua morte (un anniversario che per fortuna non è passato inosservato, almeno nel suo paese) leggere il poeta Martín Adán è “un’avventura della conoscenza”,  come testimoniano indagini critiche sempre più approfondite e frequenti, oltre a qualche opportuna riproposizione della sua opera di cui, però, ancora non esiste una vera e definitiva edizione critica, capace di riordinare e sistematizzare i preziosi materiali donati da Mejía Baca alla Pontificia Universidad Católica del Perú già l’anno dopo la morte del poeta, e che includono manoscritti di ogni genere, tra i quali taccuini e fogli sciolti (secondo la leggenda che gli è cresciuta intorno, Adán usava scrivere su scatole di fiammiferi, tovaglioli di carta e simili) con numerose poesie ancora sconosciute ai suoi lettori. Lettori giovani, soprattutto, che, come sottolinea uno dei più importanti critici latinoamericani, il peruviano Julio Ortega, “in questo momento di grande scetticismo, di incertezza circa il valore della parola in quanto creatrice di oggettività e verità” si rivolgono a lui “in cerca di quel che manca e che eccede le nostre forze. Adán rappresenta questo bisogno di una vita più piena, in cui si dia valore al linguaggio creativo. E questo è qualcosa che induce alla speranza”.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato su Alfabeta nel maggio del 2015

Da leggere: Martín Caparrós


 Martín Caparrós





Martín Caparrós, “Perché se non lo facessi mi odierei” 

Quando, nell’ottobre del 1940, i nazisti imprigionarono i cinquecentomila ebrei di Varsavia in un ghetto di tre chilometri quadrati, oltre che dello spazio, della dignità e della libertà li privarono del cibo. Un minuzioso programma (Der Hungerplan) prevedeva infatti che gli “indesiderabili” dei paesi occupati ricevessero solo minime quantità di nutrimento e finissero per scomparire grazie alla pura e semplice fame: “della questione ebraica rimarrà soltanto un cimitero” scriveva il governatore tedesco. Fu allora che alcuni medici ebrei, nell’impossibilità di salvare i propri pazienti, diedero il via a un vero e proprio programma di indagini cliniche, riunendosi clandestinamente in un cimitero fino a elaborare un piccolo trattato sull’inedia dalla ricca casistica, che venne contrabbandato all’esterno e infine pubblicato nel 1946, perché altri studiosi potessero servirsene.

Ecco uno degli infiniti episodi ricordati in La Fame dell’argentino Martín Caparrós (settecento pagine tradotte a sei mani, in modo diseguale e non sempre impeccabile, per la collana Passaggi di Einaudi), che non manca di ricordare anche un suo privato legame con gli affamati del ghetto, ovvero l’esistenza di una bisnonna sopravvissuta in qualche modo con l’esigua razione di pane e minestra, almeno fino alla deportazione nel campo di Treblinka. E l’ombra di questa remota vicenda familiare, sia pure appena accennata, contribuisce a rafforzare l’impressione di profondo, quasi rabbioso coinvolgimento con cui Caparrós affronta un tema imponente e lo travasa in un libro altrettanto imponente, frutto di cinque anni di ricerche, di studio, di viaggi, di colloqui: un testo così articolato e complesso da non poterne apprezzare la qualità divulgativa, la forza narrativa e la vis polemica se non leggendolo, la prima volta di un fiato e la seconda per riflettere a dovere sullo sguardo nuovo che l’autore posa su cose già note a chi abbia una certa familiarità con l’argomento, ma di rado riunite e intrecciate in modo così originale e stimolante.

Organizzato secondo capitoli sapientemente alterni, La Fame è allo stesso tempo un excursus storico (non per niente l’autore, nato a Buenos Aires nel 1957, durante gli anni di esilio trascorsi in Francia si è laureato in Storia alla Sorbona), un saggio ben documentato sulla geografia della fame e sui meccanismi che presiedono al suo perpetuarsi, una raccolta di narrazioni che trascendono l’impersonalità delle cifre e dei dati – che pure non mancano – e infine un autentico pamphlet, una provocazione etica e politica su quella che è la più violenta metafora dell’insostenibile disuguaglianza in cui viviamo e accettiamo di vivere, in seno al nuovo ordine neoliberista. Perché, sottolinea l’autore, la vera madre degli affamati non è la povertà di molti, ma l’eccessiva e onnipotente ricchezza di pochi, coloro che, siccome un genocidio troppo esplicito non riesce bene in televisione, ogni tanto gettano un sacco di grano (“il vecchio trucco della carità”) a milioni di persone inutili perfino come mano d’opera a buon mercato: “i superflui, quelli di troppo”, gli effetti collaterali, i residui che il capitalismo si lascia dietro.

Dal Niger all’India, dal Bangladesh al Sudan del Sud al Madagascar, senza tralasciare l’Argentina, con i suoi sojeros che divorano terreno per produrre soia e mais destinati all’esportazione (in Cina la domanda di carne cresce e i maiali vanno nutriti, al contrario dei sottoproletari locali che cercano cibo nella spazzatura), e senza dimenticare gli Stati Uniti, che negli anni ’90 sono stati i primi a “finanziarizzare” gli alimenti e dove l’obesità dei poveri corrisponde alla malnutrizione diffusa in altri paesi, Caparrós indaga e riflette, demolendo i luoghi comuni più consolidati e non risparmiando nessuno, da celebri economisti come Amartya Sen a icone come Madre Teresa, dal FMI alla religione, dagli speculatori della Banca di Chicago a tutti noi, e parallelamente racconta vite e volti, ci restituisce nomi e voci, parla di persone prima che di “poveri”, confrontandosi con il rischio della retorica e della lacrima facile, di un meccanico politically correct e soprattutto dell’ovvietà: perché è innegabile, lo sappiamo, che il discorso corrente sulla fame sia fin troppo spesso abusato, logoro, stanco, di quelli che ormai si ascoltano distrattamente e guardando da un’altra parte.

Se Caparrós riesce a sfuggire a simili trappole è per via della lunga esperienza giornalistica cominciata negli anni ’70 a Noticias, il quotidiano di Rodolfo Walsh e Miguel Bonasso, e proseguita in giornali e riviste importanti, ma soprattutto grazie a un talento di narratore e a una capacità di scrittura che lo hanno reso anche eccellente romanziere e uno dei migliori (o il migliore tout court) nel campo della cosiddetta crónica o periodismo narrativo, genere – se così vogliamo chiamarlo – eminentemente latinoamericano, che racconta la realtà com’è, senza nulla omettere o aggiungere, ma usando gli strumenti della letteratura. Una “forma” diventata oggi fin troppo di moda, nonostante i suoi spazi editoriali restino relativamente ridotti, ma che secondo Caparrós non è poi così nuova ed è stata semplicemente rinominata, bloccandosi spesso su procedimenti e modelli già cristallizzati sin dagli anni ’50.

L’aspetto interessante della crónica – frequentata nel tempo da nomi illustri come Rodolfo Walsh, Tomás Eloy Martínez e García Márquez – sta invece nella possibilità di venire elaborata in modi sempre diversi che le consentono via via di adattarsi, senza tradirla, alla realtà da narrare: e proprio qui sta la forza di La Fame, perché il suo autore, formatosi al tempo in cui la parola avanguardia aveva ancora un senso (non fu lui, insieme a Luis Chitarroni ed Alan Pauls, a fondare una rivista letteraria come Babel, decisa a sperimentare e a rompere con i canoni consacrati?), un tempo in cui “non si veniva scritti dal mercato” e quella di rivendicare una collocazione letteraria di confine era una scelta politica e non un capriccio o un ripiego, resta convinto che pensare e leggere il mondo in un altro modo passi anche attraverso “nuove forme del dire, forme diverse del dire”.

Qui, nonostante il tema si prestasse più di ogni altro a inciampi e scivoloni, la scommessa è vinta, come lo era del resto in altre opere di Caparrós, quali El Interior (un viaggio attraverso la sconfinata provincia argentina), o La Voluntad, sui terribili anni ’70 con cui l’Argentina non finirà mai di fare i conti; ma se questi due libri sono collocabili nel territorio della crónica pura, La Fame fa un passo più in là, e, con la sua riuscita ricerca di un tono giusto e del giusto stile, con il suo continuo scivolare da un genere all’altro, si propone come qualcosa di nuovo, un ibrido avvincente in cui forma e contenuto sono perfettamente funzionali l’uno all’altro. E dall’inizio alla fine, inoltrandosi in un inevitabile labirinto di contraddizioni, Caparrós continua a chiedersi perché sta facendo quello che fa, perché ha scelto di scrivere proprio della fame, pur essendo consapevole del fatto che nulla di quanto scrive cambierà la situazione di milioni di affamati, né influirà sui meccanismi che li affamano, né potrà davvero offrire, insieme alle domande e alla denuncia, anche delle soluzioni.

Le risposte sono molte, e il lettore potrà cercare di individuarle: la prima, forse, la leggiamo nell’epigrafe del libro, una frase di Samuel Beckett che suona così: “Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”. La seconda sta probabilmente nel desiderio di farci vedere quel che non vogliamo vedere e ascoltare voci che non vogliamo sentire. La terza ce la ripete più e più volte l’autore stesso: “Perché se non lo facessi mi odierei”. E un’altra ancora possiamo trovarla nelle righe di chiusura: “Se questa fosse – e qualche dio ce ne scampi – una favola, un animale direbbe non pensare mai che certe cose succedano solo agli altri. Visto che non è una favola, l’animale se ne starà zitto. E ricorderà solo quello scemo che ripeteva mai dire mai, che anche lei, signore, che lei, signora”.

  

Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nel maggio del 2015

martedì 2 giugno 2015

Anniversari e addii: Osvaldo Lamborghini


Osvaldo Lamborghini




Osvaldo Lamborghini, trent’anni dopo 

Non è durato molto il “rivoluzionario reset” del MACBA, il Museu d’Art Contemporani di Barcellona, annunciato poco più di un anno fa dal suo direttore Bartomeu Marí, il cui regno ha conosciuto successi e controversie, nonché la necessità di far fronte al taglio dei finanziamenti pubblici. E proprio le diminuite risorse economiche hanno spinto Marí a puntare su un rinnovamento dei contenuti, capace di far circolare aria nuova nel candido cubo progettato dall’architetto Richard Meyer e piazzato nel cuore del Raval, il vecchio barrio chino devastato dal turismo, eppure mai veramente addomesticato. Il nuovo corso era affidato a consulenti di prestigio quali lo storico dell’arte Valentí Roma e il filosofo Paul B. Preciado (noto, fino a non molto tempo fa, come Beatriz Preciado, attivista queer e autrice del Manifiesto Contra-sexual), alla cui iniziativa si devono mostre come la splendida La pasión segun Carol Rama, o La Bestia y el soberano, coprodotta con il Württembergischer Kunstverein di Stoccarda, fin troppo chiacchierata per via di una scultura che ritrae l’ex re Juan Carlos sodomizzato da una minatrice boliviana e causa di un maldestro tentativo di censura da parte di Marì, delle sue dimissioni e del licenziamento dei due collaboratori.

Al momento il MACBA è in una situazione di stallo, ma si possono ancora ammirare i fiori all’occhiello del direttore uscente, primo fra tutti una mostra fortemente voluta da Valentí Roma e da lui curata: Teatro Proletario de Cámara, una “prima” assoluta che rivela il lavoro grafico del leggendario scrittore argentino Osvaldo Lamborghini (in italiano esiste, di suo, solo una breve antologia curata da Massimo Rizzante, Il ritorno di Hartz e altre poesie, Scheiwiller 2013), nato a Buenos Aires nel 1940 e morto a quarantacinque anni proprio a Barcellona, dove si era trasferito nel 1981: oltre cinquecento fogli conservati in una vecchia valigia dalla vedova Hanna Muck, nell’appartamento del Born in cui il suo compagno viveva da recluso, lavorando instancabilmente a racconti e poesie, all’imponente romanzo Tadeys e alle opere oggi disposte sulle pareti di una grande sala semicircolare, presidiata da una gigantesca foto di Lamborghini semisdraiato sul suo caotico “laboratorio” domestico. Ovvero il letto di casa, trasformato in un atelier dove ritagliare, manipolare e commentare con una puntuta calligrafia le foto delle riviste pornografiche che alla fine degli anni ’70 avevano invaso la Spagna postfranchista, appositamente comperate da Hanna al mercato domenicale di Sant Antoni: un gioco inesauribile che, a trent’anni dalla prematura scomparsa di Lamborghini, un intelligente percorso espositivo dispiega davanti ai visitatori curiosi di conoscere il complesso universo di un autore oggi fra i più studiati e discussi (basti vedere la notevole raccolta di saggi Y todo el resto es literatura, curata nel 2008 da Juan Dabove e Natalia Brizuela per Interzona, o la monumentale biografia critica di Ricardo Strafacce uscita nello stesso anno presso Mansalva), nonché considerato una sorta di caposcuola segreto, magistrale ma demoniaco, da Roberto Bolaño, che fu suo attento lettore e ne parlò in Derivas de la pesada, un testo del 2002 sulla letteratura argentina, reperibile in italiano nel volume Tra parentesi (Adelphi 2009).

Per molto tempo quello su Lamborghini era stato un discorso sotterraneo, per iniziati, tutto interno a una ristretta cerchia di critici e scrittori amici come César Aira, Héctor Libertella, Tamara Kamenszain, Rodolfo Fogwill, o avversari come Leopoldo Marechal, che del suo primo libro aveva detto: “È perfetto, come una sfera. Però una sfera di merda”. E in effetti non è facile trovare, nella storia della letteratura latinoamericana del ’900, uno scrittore altrettanto “postumo”, che in vita pubblicò ben poco e quel poco quasi clandestinamente; il suo testo d’esordio, El fiord, uscito nel 1969 presso un piccolissimo editore, si poteva comperare solo richiedendolo con una specie di parola d’ordine in un’unica libreria di Buenos Aires, e sorte non molto diversa ebbero Sebregondi retrocede, del 1973, e l’antologia di versi Poemas, del 1980. Qualche racconto, qualche articolo e un certo numero di poesie apparvero inoltre su Literal, la rivista che Lamborghini aveva fondato nel ’73 con Germán Marín e Luis Gusmán, su Dispositio 1, pubblicazione americana che ospitò i poemi Los Tadeys e Die Verneinung, e in altre eterogenee sedi; insieme al disegnatore Gustavo Trigo, lo scrittore realizzò inoltre un bizzaro comic intitolato Marc!, con un eroe libertino e duro a morire.

Tutto qui: ma bastò, già allora, ad avviluppare Lamborghini nella rete di un mito che in parte si nutriva della sua vita precaria, senza domicilio fisso né professione apparente, del suo costante abuso di alcol, del continuo parlare di opere che ancora non aveva scritto e che avrebbe prodotto, invece, negli anni di Barcellona, riempiendo a mano almeno tremila pagine che non tentò neppure di pubblicare (una rinuncia simile a quella di un altro grande “irregolare” argentino, Macedonio Fernández). Solo nel 1988 esce presso le Ediciones del Serba di Barcellona la prima raccolta delle sue opere, curata da César Aira e seguita qualche anno dopo da una più completa edizione in due volumi (Sudamericana, 2003) anch’essa a cura di Aira, sulla cui lettura di Lamborghini alcuni critici – tra gli altri Patricio Pron e Damián Tabarovsky – avanzano però dei dubbi, considerandola il tentativo di normalizzare un autore così indocile e così lontano dall’avanguardia riassorbibile e “beneducata” di cui parla Libertella nel suo saggio Nueva escritura en Latinoamérica. Si deve ad Aira, comunque, l’inizio della fortuna postuma di uno scrittore non facile i cui libri trasudano violenza, sesso, sangue, sperma e feci, mescolati alla politica (Lamborghini fu un acceso militante peronista) fino a produrre allegorie di insostenibile ferocia, quasi un presagio delle future atrocità della dittatura.

“Che cosa possiamo togliere a Lamborghini, perché non sia più Lamborghini?” si chiede Damiàn Tabarovsky nel numero che la rivista Quimera dedicò nel 2009 allo scrittore. E la risposta è, per l’appunto, la violenza, il sesso, la politica, tre elementi che la mostra getta continuamente in faccia al visitatore, ancorandoli allo humour nero e al gusto per la parodia tipici dell’autore ed evidenziando i riferimenti a De Sade (anche lui scrittore recluso ed encamado, cioè “a letto”, sottolinea Preciado), a Lautréamont, Artaud, Bataille, ma anche a una scrittura della crudeltà tutta argentina che nasce nella prima metà del XIX secolo con El matadero di Esteban Echeverría.

Il titolo dell’esposizione è lo stesso di un prezioso libro-oggetto pubblicato nel 2008 in 300 esemplari dall’editore gallego Antxo Rabuñal, che però non utilizzò tutte le immagini lamborghiniane, e definito da Aira, nell’introduzione al bellissimo catalogo edito dal MACBA – El sexo que habla, con ottimi e approfonditi interventi di Alan Pauls, Beatriz Preciado, Valentí Roma, Antonio Jiménez Morato –, “un libro illustrato, un album di ricordi, un museo portatile”. E al Teatro Proletario de Cámara è dedicata anche la prima e più vasta sezione della mostra: “pornografia da edicola manipolata con matite colorate, tempere, acquerelli da scolaro, epigrafi e commenti poetico-politici, che lo scrittore realizzò di notte e per nessuno, come un vampiro in pigiama e pantofole”, scrive Alan Pauls. Nella seconda sezione sono invece raccolti i libretti artigianali, vero esempio di autoedizione in cui si alternano fotomontaggi, cronaca politica, aforismi, versi, mentre la terza riunisce disegni e collages in cui le figure dei politici si innestano su quelle pornografiche, a comporre un aspro ritratto della Spagna di allora e soprattutto della Barcellona preolimpica, città detestata e corrosivamente sbeffeggiata.

Nelle vetrine, infine, sono racchiusi i reperti più curiosi: libri, veri libri di argomento vario, detriti di una editoria inutile, scarti dell’agenzia letteraria in cui Hanna Muck lavorava e che venivano coperti di iscrizioni e commenti, completati con immagini incollate o disegnate, corredati di false copertine: un riciclaggio decostruttivo, si potrebbe dire, che rianima corpi cartacei nati morti e, ancora una volta, li utilizza per confezionare una diario artistico, beffardo e osceno, della realtà politica e sociale. Altre vetrine contengono parte della biblioteca personale di Lamborghini e svelano più di una suggestione visiva (la Transavanguardia italiana, il cinema di Fassbinder, la nuova pittura tedesca, ma anche Goya e il caricaturista Hogarth), il suo profondo interesse per la psicanalisi e infine le sue curiosità: in un angolo si affaccia Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, in un altro spunta John Cage.

L’ermetica, esasperata rivolta che connota l’opera letteraria, diventa in quella grafica ancora più furiosa e si fa esplicita, fino a generare un segno artistico che è anche scrittura e che deforma e riconfigura i corpi, perché, scrive Preciado, “il testo pornografico è per Lamborghini quello che meglio esprime le mutevole relazioni tra politica e desiderio, tra corpo e capitale”. E la mostra aiuta allora a capire come mai il lavoro di un autore la cui estetica pare precorrere i tempi in modo stupefacente, finisca per suscitare, più che interpretazioni, domande e ancora domande: “Può uno scrittore essere marginale e centrale allo stesso tempo? Può la periferia collocarsi al centro e il centro da nessuna parte?” si chiedono gli autori di Y todo el resto es literatura. Insomma, chi era davvero Osvaldo Lamborghini e cosa sta cercando di dirci, a trent’anni dalla morte?

 

 

Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nel maggio del 2015