sabato 7 giugno 2014

da tradurre: Lolita Bosch



          

Lolita Bosch


 
Voci


Barcellona, 1951. Un bambino e la sua tata stanno per prendere il tram, quando un tizio col cappello cerca di saltare la coda e un uomo dai capelli grigi gli grida: “Ei, el del berret!”. Subito un giovanotto si volta e gli dà un ceffone, dicendo: “Se dice el sombrero!”, ma nessuno reagisce. Tutti abbassano gli occhi, incluso l’uomo schiaffeggiato che ha commesso l’errore di parlare in catalano, lingua “sovversiva”  degradata dal franchismo a semplice dialetto ed esclusa dall’insegnamento scolastico. Se conosciamo l’episodio è perché il bambino con la tata era Romul Bosch, discendente di una illustre famiglia barcellonese  e futuro padre di Lolita Bosch, una delle voci femminili più note e seguite della giovane letteratura catalana, che racconta la scena in un suo incantevole esercizio di autoficción, La familia de mi padre (Mondadori, 2008), romanzo costruito a partire da materiali autobiografici e memorie familiari.
Oggi, ovviamente, le cose sono cambiate: dopo l’avvento della democrazia il catalano ha rivendicato, non senza fatica, ostacoli e problemi, la sua natura di lingua antica e solida, parlata da pochi milioni di persone e tuttavia capace di produrre una letteratura di tutto rispetto, sempre più tradotta all’estero ma ancora in buona parte da scoprire, come dimostra un’antologia pubblicata di recente da Empúries e, in spagnolo, da Anagrama. Veus (ossia “Voci”) raccoglie infatti pagine di romanzo, racconti e poesie  di quarantuno autori con meno di quarantuno anni, accomunati dall’uso di una lingua “piccola, protetta gelosamente e amata da chi la parla come se fosse un oggetto prezioso (…), una lingua che convive sempre, in qualsiasi territorio la si parli, con altre lingue: spagnolo, italiano, francese”, scrive nel saggio introduttivo la curatrice del volume. Curatrice che è appunto Lolita Bosch, presenza importante nella vita culturale di Barcellona, città dove è nata nel 1970, e autrice mai tradotta in Italia nonostante la qualità e l’originalità dei suoi libri, come Tres historias europeas o Elisa Kiseljak  (Caballo de Troya 2004 e 2005), dal quale Judith Colell e Jordi Cadena hanno tratto il film “Elisa K” , Premio Speciale della Giuria al Festival di San  Sebastiàn del 2010.
La sua scelta dei testi, rivendicata come soggettiva e personale, accosta autori noti anche all’estero come Albert Sánchez Piñol (il suo racconto Cuando caían hombres de la luna è tra i più belli dell’antologia) ad altri eccellenti ma meno conosciuti fuori dai confini nazionali, come Jordi Puntí e Sebastià Alzamora, fino a debuttanti come la giovanissima Elisabet Goula e a “nuovi catalani” come Najat El Hachmi, nata in Marocco e autrice di un best seller edito da Planeta, L’últim patriarca (2008).
Il risultato è, come ci si può aspettare da un’antologia fin troppo nutrita, alterno ma molto interessante: anche se i quarantuno autori non sono sempre dello stesso livello, molti incuriosiscono, alcuni entusiasmano e quasi tutti meritano di essere meglio conosciuti. Ma soprattutto, nonostante la considerevole diversità dei testi, quello che emerge dalle pagine di Veus è un filo comune nato dall’intreccio fra una relazione intima e organica con il català  – che si esprime, dice Bosch, anche attraverso l’intenso rapporto con le voci del passato, da Mercé Rodoreda a Llorenç Villalonga - e lo slancio verso altri luoghi, altri contesti, altre influenze. Se la lingua è la circoscritta “terraferma” in cui i nuovi scrittori catalani sono nati e cresciuti, è anche il luogo da cui partono per sperimentare la natura aperta e universale della letteratura.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto  nel gennaio 2011