sabato 7 giugno 2014

da leggere: Rodrigo Fresán

Rodrigo Fresán



L’impossibilità di essere Bolaño

Quando aveva dieci anni, nel 1973, Rodrigo Fresán venne sequestrato a Buenos Aires dalla Triple A - Alianza Anticomunista Argentina - in quanto figlio di una madre psicanalista (la vittima del sequestro avrebbe dovuto essere lei) e di un padre disegnatore ritenuti entrambi “sovversivi”. Il tutto si concluse con un rilascio, con la precipitosa fuga della famiglia  Fresán verso il Venezuela, e, probabilmente, con un certo numero di incubi notturni. E adesso che il bambino di allora è diventato uno dei più noti scrittori ispanoamericani, è proprio a quel lontano episodio che viene da pensare leggendo “I giardini di Kensington” (Mondadori), pubblicato  in dodici paesi e considerato un piccolo evento dalla critica di lingua spagnola.
La voce narrante del romanzo fiume di Fresán, infatti, è quella di Peter Hook, un popolarissimo scrittore che ha guadagnato una fortuna scrivendo libri per ragazzi e che nel corso di una lunga notte parla ininterrottamente a un bambino da lui rapito, il piccolo attore Kaiko Kei, interlocutore silenzioso perché legato e imbavagliato. La storia che gli racconta è fatta in realtà di due vicende intrecciate: innanzitutto quella di James Matthew Barrie (1860-1937), commediografo e scrittore scozzese che nel 1904 scrisse la piece teatrale Peter Pan e nel 1906 diede alle stampe il romanzo per bambini Peter Pan in Kensigton Gardens (seguito nel 1911 da Peter and Wendy), e poi quella dello stesso Hook, figlio di una star del pop scomparsa in un assurdo naufragio e così amante del LSD da iniziare al suo consumo anche il figlioletto. Le vite di dei due scrittori sono in un certo senso legate l’una all’altra dalla figura di Peter Pan, “doppio” meraviglioso ma anche angelo cattivo di Hook (che non a caso si è scelto come nom de plume quello del malvagio capitano con una mano sola), la cui vita è stata sconvolta dalla fiaba sul ragazzo che non voleva crescere, in certo senso responsabile della sua trasformazione in un  serial killer di bambini.
Complicata e piena di colpi di scena, sorprese, divagazioni, la vicenda si svolge sullo sfondo della Londra vittoriana e di quella degli anni sessanta, tra le quali Fresán individua legami e similitudini, ragionando al contempo di infanzia e di morte e del potere devastante della letteratura, finchè il protagonista si getta dalla finestra insieme alla sua ultima vittima, e in questo modo diviene un Peter Pan bloccato nel tempo immobile e sospeso del coma. Una volta arrivato a questo scioglimento, l’esausto lettore dovrà ammettere che “I giardini di Kensigton” è un romanzo di quelli che si amano o si odiano, e che ha comunque tutti i requisiti per risultare irritante.
Irritante è la copertina dove il solito “strillo” laudativo annuncia: “Fresán è un Borges pop”, madornale stupidaggine a firma del  Times Literary Supplement. Irritante è la lunghezza, che avrebbe meritato una colossale potatura per mano di un editor spietato, e che induce una volta di più a pensare quale mancanza di buona educazione nei confronti dei lettori rappresenti un libro di 450 pagine, duecento delle quali superflue. Irritante è la propensione dell’autore per i giochi di parole facili e correnti, irritantissima la sua volontà di confermare a ogni riga l’etichetta di “scrittore pop” che gli è stata attribuita sin dai suoi esordi e che comporta continue citazioni di Bob Dylan, dei Beatles, di John Lennon (onnipresenti maîtres à penser che nel romanzo fanno anche la loro apparizione come personaggi) nonchè lunghi, minuziosi elenchi di tutto ciò che fa happy sixties, capaci di scoraggiare anche il lettore più paziente, specie se convinto che gli anni ’60 siano stati qualcosa di più e di meglio di un bagno nell’acido lisergico.
Irritante e anche un po’ patetica, infine, è la manifesta impossibilità di essere Roberto Bolaño che sembra affliggere sempre di più tanto Fresán quanto altri autori latinoamericani. La forte personalità e il genio narrativo dello scrittore cileno, morto prematuramente nel 2003, vanno infatti esercitando un’influenza sempre più percepibile tra gli autori appartenenti alla categoria dei “giovani”, o per ragioni anagrafiche (è il caso per esempio del peruviano Diego Trelles Paz, autore di El circulo de los escritores asesinos (Candaya), in cui appaiono Arturo Belano e Ulisess Lima, i due protagonisti di “I detectives selvaggi”, forse il più celebre tra i romanzi di Bolaño, o semplicemente perché, come Fresán, sono stati “giovane scrittori” così a lungo da restarlo anche dopo i quaranta.
Peccato che, di Bolaño, Fresán sembri cogliere soprattutto la “maniera”, seppellendo il lettore sotto una tale valanga di citazioni e rimandi letterari, cinematografici e musicali da lasciarlo stordito, nonché incline a pensare che l’ars combinatoria di stampo bolañiano finisca per dare frutti perversi, se applicata alla lettera e con tanto puntiglio. Deciso a presentarsi come un “malato di letteratura”, ovvero come un lettore che scrive per sedurre e soddisfare sé stesso, Fresán si abbandona a una serie di giochini metaletterari piuttosto usurati, introducendoci in quello che sembra un parco a tema o l’affollatissima stanza di un collezionista maniacale intento ad ammucchiare reperti disparati, dai libri della sua prima infanzia al vinile, dai balocchi vittoriani sino ai più minuti rimasugli della swinging London, il cui ovvio collante sono un discorso sull’infanzia come luogo dal quale è impossibile separarsi (non in quanto paradiso perduto, ma perché è là che tutto è accaduto e continua ad accadere) e l’eterno gioco di specchi tra letteratura e vita.
La parte più interessante, inutile dirlo, è quella in cui l’autore riesce a distaccarsi dai suoi feticci personali per narrare la vita eccentrica di Barrie, personaggio inquietante e in tutto e per tutto assimilabile al piccolo eroe da lui creato: una macchina per produrre letteratura, un ometto di statura minima inchiodato per anni a un matrimonio forse non consumato, un adoratore dell’infanzia, incarnata nei fratellini Llewellyn incontrati un giorni nei giardini di Kensigton e divenuti il vero grande amore della sua vita, così divorante che sarà lui ad occuparsene dopo la scomparsa prematura  dei genitori, ai quali aveva conteso palmo a palmo l’attenzione e l’affetto dei piccoli. Per il resto, la scrittura di Fresán passa da una singolare rapidità ed efficacia a una sentenziosa logorrea, mentre quello che viene di solito definito come il suo “sguardo pop” finisce per apparire autoreferenziale, feticista, enumerativo, pocoo interessante per chi non condivide le sue passioni, i suoi miti, i suoi codici e le sue manie.
E tuttavia “I giardini di Kensigton” non è un libro che lascia indifferenti o sul quale si può sorvolare: la sua sovrabbondanza e il suo carattere di privata camera delle meraviglie e degli orrori, piena di tutti i possibili detriti e avanzi esibiti quasi con insolenza e all’insegna di un’aperta richiesta di complicità, producono comunque nel lettore alcuni “effetti collaterali”. Il primo è la constatazione del fatto che la letteratura per l’infanzia come tradizionalmente la intendiamo ha smesso di esistere: esistono ancora i libri per bambini (inclusi best sellers di cassetta come quelli scritti da Peter Hook) e l’editoria che li produce, ma non (non più) testi letterari capaci di toccare e “possedere” un bambino nel modo profondo, durevole, incancellabile di cui parla Fresán mentre disegna l’attendibile identikit di un apprendista lettore.
Il secondo è l’inevitabile riflessione sul fatto che a considerare l’infanzia una stagione mitica e a sognarsi come altrettanti Peter Pan in perpetuo volo sono soltanto gli adulti, perché i bambini non vedono l’ora di crescere: il che significa in primo luogo sopravvivere. I più celebri tra coloro che non vogliono diventare grandi, ossia Peter Pan e il Piccolo Principe (ed è curioso che il libro di  Fresán esca proprio in coincidenza con il centenario di Peter Pan in the Kensington Garden e del sessantesimo anniversario della pubblicazione francese del celebr libro di Saint Exupery) sono in realtà bambini morti, piccoli e bellissimi cadaveri, a differenza di Pinocchio che per geniale intuzione di Collodi smette di essere un burattino, cresce e si evolve. Meglio un adulto vivo che un bambino morto, qualunque cosa ne dicano gli scrittori “volanti” e l’immarcescibile spirito romantico che dell’infanzia ha fatto una stagione “pura”, sacra e perfetta.
Il terzo è un ragionamento su ciò che è la nuova letteratura ispanoamericana prodotta da un nutrito numero di trenta - quarantenni periodicamente interrogati (e che periodicamente si autointerrogano) sul loro essere, appunto, scrittori ispanoamericani
Salta agli occhi, infatti, quanto sia profonda la frattura tra i nuovissimi autori dell’America Latina e le generazioni precedenti, con le quali hanno in comune solo la lingua e l’origine geografica.
Per diverse che fossero le loro concezioni della letteratura, gli scrittori del boom e del postboom avevano alcuni punti fermi in comune: per esempio una capacità di sperimentazione linguistica e formale, una densità estetica e un’ambizione creativa che in buona parte prescindevano dal mercato. Una considerevole parte di essi, inoltre, era unita anche da aspirazioni etiche e da una volontà di denuncia e di cambiamento che si riassumevano nella parola compromiso (impegno). E infine il loro sistema di riferimento includeva la letteratura, l’arte e il cinema mondiali e innanzitutto europei, mentre per le nuove generazioni l’influsso dominante è quello del cinema, della televisione, della musica, dei videoclip, della pubblicità che vengono dal Nordamerica, come testimonia ampiamente l’opera di Fresán, assolutamente mimetica rispetto a quella di autori della sua età nati e cresciuti in Nordamerica. 
Tuttavia qualcosa continua a unire  i membri di generazioni così diverse: il fatto di essere, proprio perché latinoamerica, ancora periferici e  “fuori fuoco” rispetto all’occhio di un mercato editoriale attento in primo luogo al prodotto e a una vendibilità il più possibile planetaria. Oggi che l’ Occidente sembra avere qualche difficoltà a concentrare lo sguardo su un continente in rapida e stimolante mutazione come l’America Latina, accade la stessa cosa con i suoi scrittori: anche se “globalizzati” e pronti a sostenere che la loro identità risiede nei libri che leggono, nei film che vedono o nella musica che ascoltano, i giovani autori latinoamericani restano tutto sommato ai margini, fermi su un confine difficile da varcare anche quando si sforzano in tutti i modi possibili di spostarsi verso un centro che, nonostante tutto, resta inaccessibile anche a quanti  sembrano più inseriti nel  sistema editoriale mondiale, come  Rodrigo  Fresán. Solo Bolaño è davvero riuscito (e in che modo) a occupare davvero questo centro, per ragioni che in parte prescindono dal reale valore della sua opera e che lo hanno trasformato, da scrittore isolato e ribelle, in un vero e proprio brand di successo: ma questa, come si usa dire, è un’altra storia.


Questo articolo è uscito su Il Manifesto nell’aprile del 2006.