sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Patricio Pron


                                 

Patricio Pron



Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia 

Un’infanzia trascorsa all’ombra della dittatura, un’adolescenza che ha coinciso con la falsa euforia del menemismo, un volontario sradicamento che lo ha portato giovanissimo in Germania, dove si è laureato in filologia romanza all’università di Gottinga, e infine l’approdo a Madrid dove collabora a riviste culturali, traduce e scrive: questa, in breve, la storia di Patricio Pron, nato a Rosario nel 1975 e considerato uno degli scrittori più interessanti della sua generazione, tanto in Europa che in America latina. Già proposto ai lettori inglesi da Faber&Faber, a quelli francesi da Flammarion e agli americani da Knopf, Pron è un autore precoce e prolifico, che dal 1998 a oggi ha prodotto quattro antologie di racconti (l’ultima, La vida interior de las plantas de interior è uscita presso la Random House Mondadori, il suo editore in lingua spagnola) e cinque romanzi che, titolo dopo titolo, sembrano scandire le tappe di una sicura maturazione, pienamente espressa in almeno tre opere di indiscutibile valore.

La prima è El comienzo de la primavera (2008), in cui l’ossessione di un giovane filosofo argentino per l’opera e la persona di un anziano intellettuale tedesco ci restituisce un complesso ritratto a più voci della Germania post-nazista. La seconda, El mundo sin las personas che lo afean y lo arruinan (2010), contiene diciotto racconti ambientati quasi sempre in Germania, bellissimi e a volte inquietanti come Las ideas, storia di un ragazzino che si perde nel bosco suburbano di una remota cittadina e riappare soltanto per portare via gli altri bambini e formare con loro un gruppo misterioso e selvatico, alla cui presenza gli adulti finiranno per rassegnarsi. La terza, infine, è Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia (Guanda, pag. 197), romanzo il cui titolo rimanda all’ultimo verso di I fellowed sleep (una celebre poesia di Dylan Thomas), e che arriva finalmente in Italia nella traduzione di Roberta Bovaia, brava interprete dello spagnolo ingannevolmente neutro del giovane scrittore argentino.

Come in buona parte dei suoi testi precedenti, anche qui Pron resta fedele ad alcuni temi che gli stanno a cuore: il rapporto tra generazioni e in particolare quello tra genitori e figli, la memoria, la lontananza e il ritorno, lo straniamento, l’esigenza di una dimensione etica e politica da reinventare e riprogettare. Ma non c’è dubbio che questo sia il suo scritto più autobiografico, quello in cui scava più apertamente e in profondità nella propria vicenda personale e familiare, evitando sempre, tuttavia, i vezzi e i compiacimenti di quella autofiction generazionale che oggi rappresenta il marchio di fabbrica (e il limite) di certi scrittori “giovani”.

La vicenda che ci racconta Pron è quella di un argentino espatriato in Germania che all’improvviso torna a Rosario, la sua città, per rivedere il padre gravemente ammalato. Tra lunghe soste nei corridoi dell’ospedale e l’esplorazione di un universo domestico abbandonato otto anni prima, il figlio trova le cartelline in cui il padre giornalista ha riunito articoli, fotografie e appunti su un uomo, Alberto Burdisso, scomparso tempo prima e ritrovato morto in fondo al pozzo dove lo ha gettato una banda di assassini feroci e improvvisati. Ci viene così rivelata una doppia indagine, quella testimoniata dalle carte paterne e quella del protagonista che comincia a interrogarsi sul passato dei suoi, quando scopre tra i documenti la notizia di un’altra remota sparizione: Burdisso, infatti, aveva una sorella introdotta alla militanza da Pron padre, arrestata e quindi desaparecida.

Una storia vera, quella dei due Burdisso, come vera è l’appartenenza dei genitori di Pron a un gruppo della resistenza peronista più ortodossa, sciolto alla morte di Perón. Scivolata in una silenziosa clandestinità dopo l’avvento della dittatura, la famiglia è vissuta tra le mille precauzioni ispirate da un terrore quotidiano, ed è intorno a quell’ombra proiettata sull’ infanzia sua e dei fratelli che Pron ragiona e riflette. Vuole, a partire dai pochi versi che la ragazza Alicia ha lasciato e dalla foto in cui appare sorridente, porre domande mai fatte prima, riaprire le ferite e guardarle da vicino. Perché, come dice lo scrittore Marcelo Cohen nell’epigrafe scelta per l’ultima parte del romanzo: “Siamo sopravvissuti, resistiamo alla morte di altri. Non c’è altro rimedio. E non c’è altro rimedio che ereditare ciò che rimane. Una casa, un carattere, una società, un paese, una lingua. Poi verranno altri: siamo anche la gente che verrà. Che cosa ne facciamo di questa eredità?”.

È necessario, quindi, che padri e figli si parlino davvero, che generazioni diverse si prendano vicendevolmente le misure, che un’eredità venga consegnata o reclamata. Il romanzo di Pron lo fa presente con forza, anche se non offre risposte e si riserva il diritto di mettere sul tavolo opinioni a volte agre: per esempio che i figli siano stati una sorta di “premio di consolazione” per il fallimento della militanza, e allo stesso tempo una garanzia di normalità che poteva valere, in certi casi, da assicurazione sulla vita. E potrebbe essere interessante scoprire nel sito dello scrittore le puntigliose osservazioni e obiezioni elaborate da suo padre “Chacho” Pron, come per ricondurre nei confini di un fedele resoconto quello che invece è e rimane un romanzo.

E che romanzo: un abilissimo gioco di specchi in cui si riflettono le due indagini parallele, il passato e il presente, le simmetriche sparizioni di Alberto e Alicia, la migrazione e il ritorno, il fiume di sogni (una sarabanda quasi surrealista) scaturito da una breve malattia del figlio e il sonno buio del padre nel suo letto di ospedale, le stanze protettrici della casa e un esterno in cui l’aria “è stata spostata” e riempita da tutte le cose che non si vorrebbero mai affrontare, come la morte dei genitori o il paesaggio di un’ infanzia dalla quale non si riesce a distogliere gli occhi.

Un autentico puzzle, insomma, i cui pezzi non sono veri e propri capitoli ma frammenti di varia lunghezza, che a un certo punto sembrano simulare il romanzo poliziesco e la cronaca nera, oppure si trasformano in ipnotici elenchi che aiutano a prendere le distanze da emozioni e domande: i libri della biblioteca dei genitori, le parole che più spesso figurano nei titoli – tattica, strategia, lotta, Argentina, Perón, rivoluzione –, i componenti degli psicofarmaci prescritti dallo psichiatra tedesco e i loro effetti secondari, gli oggetti di un tempo, immutati ma curiosamente rimpiccioliti.

Il tutto è sostenuto da un linguaggio asciutto, trattenuto, senza sbavature, che non sbaglia mai registro e contribuisce a mettere in evidenza l’originalità dell’approccio a questioni come la dittatura o i desaparecidos, che la letteratura argentina contemporanea ha trattato così di frequente e così a fondo. All’abituale intreccio di vicende personali e collettive, o al puro e semplice ricorso alla memoria, Pron ha aggiunto uno sguardo personalissimo sulle vicende del proprio paese, proprio come hanno fatto altri “figli” argentini, suoi coetanei: per esempio Felix Bruzzone, autore del bizzarro Los topos (2008), i cui genitori appartenevano all’ERP e, sequestrati dai militari, non tornarono mai a casa; oppure Laura Alcoba, cui dobbiamo La bambina della casa dei conigli (Piemme 2009), fuggita in Francia insieme alla madre montonera. Modellate dalla dittatura e dal suo contrario, cioè dalla tenace militanza dei genitori, le loro infanzie hanno generato racconti in cui l’elemento autobiografico viene trasfigurato e la politica si conferma, in altre forme e con altre figure, indispensabile. E va da sé che per narrare tutto questo non è sufficiente essere figli: bisogna essere, come Pron, autentici scrittori.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’aprile 2013