sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Julio Ramón Ribeyro


Julio Ramón Ribeyro



I genietti della domenica

Benché, schivo e solitario com’era e sempre intento a rincorrere improbabili impieghi mai sufficienti a sanare le sue difficoltà economiche, abbia beneficiato assai poco del cosiddetto Boom della narrativa latino americana, il peruviano Julio Ramón Ribeyro non dovrebbe essere del tutto sconosciuto al pubblico italiano, visto che Einaudi ha pubblicato negli anni ’70 Cronaca di San Gabriel, uno dei suoi tre romanzi, e più tardi i racconti di Niente da fare, Monsieur Baruch, cui si sono aggiunti negli anni successivi due testi minori, passati quasi inosservati.

L’uscita di un suo romanzo del 1965, I genietti della domenica, tradotto in italiano da Nicoletta Santoni per La Nuova Frontiera, rappresenta dunque l’occasione di riscoprirlo e un piccolo avvenimento non solo per gli appassionati, ma per chiunque voglia misurarsi con una letteratura solida e raffinata e con una tecnica narrativa talmente fluida e naturale che il lettore ci si immerge senza quasi notare quanto sia “lavorata” la sua apparente semplicità, frutto dalla scontentezza e dell’ansia di perfezione di uno scrittore che fino all’ultimo si è interrogato sul valore e sul senso della propria opera, senza mai cedere a quella “tentazione dell’insuccesso” che da sempre lo insidiava e che si è felicemente trasformata in ricerca di perfezione e nell’identificazione costante tra vita e scrittura.

In questo romanzo che sembra scritto oggi e che non mancherà di stupire per la sua immediata freschezza anche a tanti anni di distanza dalla sua prima uscita, Ribeyro traccia il ritratto di un personaggio e insieme di una città, Lima, in preda a una trasformazione frenetica che la vede alle prese con nuovi e aggressivi modelli economici e culturali: l’urbe sonnolenta e sontuosa che Rubén Darìo chiamava la ciudad de la gracia sta diventando, infatti, Lima la horrible (titolo di un acuto saggio di Sebastián Salazar Bondy), dove migliaia di contadini vengono a cercare inutilmente lavoro e futuro, per sparire poi nelle sabbie mobili del sottoproletariato.

“Il paese si era trasformato e continuava a trasformarsi e Lima, in particolare, aveva smesso di essere l’hortus conclusus del viceregno, per diventare una città rumorosa, bruttissima e industrializzata, dove la cosa più insolita che si potesse incontrare era un limeño”, scrive Ribeyro in uno dei suoi racconti, ed è in questo scenario che Ludo, protagonista senza qualità, lascia un impieguccio sicuro per dedicarsi a una sempre rimandata carriera letteraria, ma in realtà per abbandonarsi completamente a una bohème sfrenata e sordida, con punte di grottesco e comico squallore (l’inutile assalto sessuale a una nana pudibonda, unica ragazza rimediata per quella che nelle speranze del giovanotto e dei suoi amici doveva essere una vera e propria orgia, è un passaggio irresistibile).

Nel corso delle sue scorribande tra prostitute, bordelli, bar, epiche bevute, ruffiani ricattatori e vecchi gaudenti irriducibili, il protagonista non si rende conto di celebrare, notte dopo notte, la decadenza della borghesia un tempo illustre e ora sempre più impoverita e impotente di cui fa parte, e la mutazione inarrestabile di una città che a poco a poco lo rende estraneo a sé stesso, alle proprie memorie e al futuro.

Per lui, infatti, non ci sono che un presente in perpetua ebollizione e la coazione a ripetere gli stessi gesti, ad andare a letto con donne diverse che in realtà ne compongono una sempre identica, a rifugiarsi in una marginalità apparentemente senza rimedio, espressa magnificamente nel finale in cui il protagonista si ritrova, solo, nell’angusto e ammuffito appartamento della nonna morta, ingombro delle cose di lei e dei suoi innumerevoli cappellini tarmati. A Ludo, che se ne piazza in testa uno con tanto di veletta nera e si guarda indifferente allo specchio, perfino il suicidio è precluso, perché dopo essersi puntato una pistola alla tempia riesce solo a impugnare il rasoio e a radersi i baffi.

A mano a mano che il romanzo avanza verso un precipitoso e casuale delitto che probabilmente non conoscerà castigo, la narrazione assume i toni di un neorealismo urbano squisitamente “nero”, raccontando passo passo la geografia sociale di una città cupa, inquietante, mortale, espressione di “una società precapitalista che si modernizza senza democratizzarsi”, ma anche il progressivo precipitare di Ludo, che si spoglia di qualsiasi aspirazione, desiderio o nostalgia per affacciarsi su un abisso non misurabile.

Un abisso che, forse, è lo stesso in cui sarebbe precipitato Ribeyro (di cui Ludo si può considerare, in un certo senso, un “doppio” sciagurato) se le sue straordinarie qualità di scrittore non lo avessero trattenuto e salvato: invece di caderci dentro, lo ha rappresentato con emozionante, fredda e determinata accuratezza, facendo sperimentare anche a noi il medesimo brivido che si prova a guardarlo da vicino.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nell’aprile del 2011