sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Julio Cortázar


Julio Cortázar




Una città corrotta e inesplicabile

“Il mobile degli inediti è un armadio alto più di un metro e pieno di cassetti. Una specie di mobile di plastica, gonfio di carte”. Così Mario Muchnik, leggendario editore nato a Buenos Aires ma trapiantato giovanissimo in Europa, descrive l’archivio “disordinatamente ordinato” in cui il suo amico Cortázar conservava inediti, lettere, abbozzi, quaderni che hanno permesso alla sua opera di continuare a crescere, di sovvertire le cronologie consolidate, e in un certo senso di “autoriscriversi” alla luce del lavoro fatto dai curatori e dall’erede Aurora Bernárdez.

È da quei cassetti che sono spuntati i materiali preparatori di Rayuela, romanzo del quale tutto il mondo di lingua spagnola ha celebrato nel 2013 il cinquantenario, tra mostre, edizioni speciali, conferenze e dibattiti; è da lì che vengono i sette volumi della corrispondenza e le quasi cinquecento pagine di Carte inaspettate (Einaudi 2012), che includono racconti, interviste “allo specchio”, poesie, scritti politici. E un altro regalo del mobile di plastica sono le edizioni postume dei primi romanzi di Cortázar, Divertimento (1949) e L’esame (1950), testo che ne ha poi è generato un altro, Il diario di Andrés Fava, grazie all’estrapolazione di un lunghissimo capitolo dedicato ai pensieri e alle annotazioni di uno dei personaggi principali.

Tre opere, dunque, scritte in Argentina poco prima che lo scrittore la lasciasse nel 1951 per stabilirsi definitivamente a Parigi. E soprattutto tre opere mai inserite nella categoria dei “romanzi morti, conservati dagli autori a testimonianza del proprio fallimento” (la definizione è di un altro argentino, Tomás Eloy Martínez), perché non solo Cortázar le salvò dalla distruzione cui nel 1960 aveva condannato un altro romanzo, Soliloquio, ma le lasciò “quasi pronte per la pubblicazione”, giudicandole di un certo interesse per i suoi lettori.

Pubblicati in lingua spagnola nel 1986, due degli inediti sono già usciti in Italia (Divertimento nel 2007, Il diario di Andrés Fava nel 2011) per le edizioni Voland, che ora mandano in libreria anche L’esame, affidato alla brava Paola Tomasinelli, qui alle prese con una lingua piena di invenzioni e di vecchie espressioni porteñas ormai in disuso, e con una scrittura dalle tinte surrealiste, abbastanza sperimentale da richiedere al traduttore un certo impegno. Proprio come i testi precedenti, anche questo sembra confermare un’idea diffusa, e cioè che Cortázar, straordinario autore di racconti, non abbia raggiunto esiti altrettanti felici nel romanzo; e tuttavia L’esame presenta motivi di interesse sufficienti a non archiviarlo come “preistoria cortazariana”, o come un semplice testo di transizione non del tutto riuscito, in cui si affacciano elementi che sembrano annunciare Rayuela, l’obra maestra divenuta lettura iniziatica per i giovani degli anni ’60 e ’70, ma che oggi una parte della critica, pur senza condividere il duro giudizio di César Aira (“Il miglior Cortázar è un cattivo Borges”), considera alquanto logorata dal passare degli anni.

I punti di contatto sono numerosi: il piccolo clan di amici, così simile al Club del Serpente, che attraversa il romanzo parlando di letteratura e del senso delle cose, l’autoreferenzialità dei giovani protagonisti e la loro sincera ansia di ricerca, i giochi di parole, lo humour usato come esorcismo, il sottile machismo (il rapporto tra Andrés e Stella ricorda quello autoritario e “verticale” tra Oliveira e la Maga), il vagare incessante per la grande città, le situazioni irrisolte che lasciano al lettore spazi vuoti da riempire… Ma L’esame, testo quasi privo di trama e composto in buona parte da dialoghi (“un succedersi di chiacchiere da caffè articolate narrativamente”, scrive il critico spagnolo García Martín), non è solo un seme dal quale nascerà l’albero di Rayuela: è anche un castello di allusioni e metafore che contribuiscono a far luce sui motivi per cui lo scrittore lasciò l’Argentina peronista. Non dimentichiamo che Cortázar, quando elabora questo suo secondo romanzo, ha ormai dato le dimissioni dall’Università di Cuyo, dove insegnava letteratura francese, per non sottostare al controllo peronista sulle attività educative e sulla produzione di cultura; ma soprattutto ha scritto, oltre ad articoli e racconti pubblicati su diverse riviste, un dramma in versi, Los reyes, in cui si fronteggiano Teseo (“il perfetto fascista”) e il Minotauro, che, afferma l’autore nel prologo all’edizione francese, rappresenta “il poeta, la creatura doppia capace di percepire una realtà diversa da quella abituale, e più ricca”, insomma “un mostro” temuto, odiato e perseguitato dai tiranni di ogni epoca.

I giovani intellettuali di L’esame sono e si sentono mostri del genere, assediati da una presenza fantasmatica e minacciosa (Abel, personaggio sempre intravisto e mai raggiunto), persi in una città solo in apparenza riconoscibile, ma in realtà invasa da una nebbia appiccicosa, da un’umidità bollente, dal proliferare di strani funghi le cui spore volano dappertutto, e infine da una folla terrificante e barbara, chiamata all’adorazione inesplicabile di un osso in Plaza de Mayo e guidata dalla voce di un candidato che sbraita slogan insensati, mentre la cultura ufficiale si rinchiude in una Casa dove migliaia di persone “consumano” mondanamente l’ascolto di libri che non leggeranno mai, in una sorta di apoteosi del reading che sembra prefigurare i nostri festival letterari. Questo paesaggio urbano corrotto e inesplicabile è, per Cortázar, l’Argentina di allora, la sua Argentina, governata da un regime che gli ripugna e dalla quale si può solo fuggire, alla lettera o con l’enigmatico colpo di pistola che suggella il romanzo, verso “un’altra riva”.

Come sottolinea lo scrittore e saggista Carlos Gamerro, “Cortázar sta al peronismo come Kafka sta al fascismo: non esplora la sua politica, ma la sua metafisica”. Forse è proprio in questa chiave che, oggi, si può leggere L’esame, certamente imperfetto eppure capace di cogliere l’essenza di una realtà inquietante, con le sue strade infette, le sue folle stregate da un populismo bugiardo e manipolatore, i funzionari della cultura ciechi alla realtà o pronti ad adeguarsi al potere, i protagonisti impotenti, sospesi tra il suicidio e la fuga: sì, è l’Argentina degli anni ’50, eppure tutto questo non ci suona stranamente familiare?

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2013