sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Borges e Bioy Casares


                       
                        Jorge Luis Borges


Adolfo Bioy Casares

   


Gli italiani? “Gentaglia senza il minimo rispetto”

L’idea era venuta a Adolfo Bioy Casares nell’inverno del 1944, mentre era a letto per un’influenza: perché non proporre ai lettori argentini una serie di polizieschi accuratamente scelti, ben tradotti e confezionati con eleganza? Fu così che, l’anno seguente, nacque El septimo circulo, famosa collana della Emecé che Borges e Bioy Casares diressero per una decina di anni, curandola fin nei minimi dettagli.

Il nome era di chiara ispirazione dantesca, alle copertine provvedeva il pittore cubista José Bonomi, i traduttori e i revisori – tra i quali c’era la madre di Borges, Leonor Acevedo – venivano scelti in base a prove severe e la selezione dei titoli portava la riconoscibile impronta dei curatori e del loro gusto per il miglior mistery all’inglese. Non a caso il primo autore della nuova collana fu Nicholas Blake – ovvero il poeta irlandese Cecil Day-Lewis –, mentre ben pochi romanzieri di scuola americana ebbero l’onore di figurare nel catalogo (ma a recuperarli ci penserà Ricardo Piglia, che a partire dal 1969 dirigerà, per la Editorial Tiempo Contemporáneo, l’altrettanto famosa Serie Negra).

Non c’era dubbio, insomma, che Borges e Bioy Casares fossero devoti al poliziesco in quanto macchina narrativa dal meccanismo perfetto, il cui fulcro è un enigma sanguinoso ma stilizzato, quasi un gioco intellettuale estraneo alla violenza e al cupo realismo dell’hard boiled. Per averne conferma, se mai ce ne fosse bisogno, basta scorrere l’indice della loro antologia Los mejores cuentos policiales (Emecé 1944) – nota in Italia come I signori del mistero (Editori Riuniti, 1982) – vero e proprio abbozzo di un canone in cui troviamo, fra gli altri, il nome di Honorio Bustos Domecq, creatore del singolare detective che secondo Rodolfo Walsh rappresenta la figura fondante del poliziesco argentino.

Ma chi era Busto Domecq? Nient’altro che il duo Borges-Bioy Casares, nascosto dietro uno pseudonimo composto dai cognomi dei propri nonni e bisnonni: un autore immaginario di cui troviamo la immaginaria nota biografica in apertura della raccolta di racconti Sei problemi per don Isidro Parodi, pubblicata da Emecé nel 1942, tradotta in italiano per la prima volta nel 1971 e oggi riproposta da Adelphi a cura di Antonio Melis, nella bella e vivace versione di Lucia Lorenzini.

Sin dalle prime righe della falsa biografia è evidente che la collaborazione tra Borges e Bioy (testimoniata dalle molte opere scritte a quattro mani, nonché dalle 1663 pagine di Borges, il volume pubblicato nel 2011 dalla Editorial Destino in cui sono raccolti tutti i brani dei diari di Bioy che riguardano un sodalizio cinquantennale), è all’insegna del divertimento e, pur rispettando i canoni del genere prediletto, riesce a parodiarli brillantemente.

Di racconto in racconto, Don Isidro, ex barbiere condannato ingiustamente per omicidio, risolve con incredibile perizia sei casi criminali che rappresentano altrettanti archetipi delittuosi. E lo fa senza muoversi dalla sua cella, obeso e immobile, apparendoci come la quintessenza del detective tutto cervello, un distillato di deduzioni, la personificazione di un poliziesco che, sostiene Borges nella conferenza El cuento policial (in Borges oral, Obras completas, Emecé 1996), “salva l’ordine in un’epoca di disordine”, proprio mentre la letteratura “tende a sopprimere i personaggi, i temi, e tutto è assai vago”.

Anche se l’eco di Chesterton, ma anche di Stevenson e del suo principe-tabaccaio Florizel, è chiaramente percepibile, i sei “problemi” si rifanno a codici di comportamento e figure del sottobosco intellettuale argentino dell’epoca, satireggiate senza pietà: scrittorelli falliti, critici ottusi, accademici presuntuosi, insopportabili bas-bleu. Insieme a loro, la presenza di avventurieri, nuovi ricchi e, ovviamente, degli innumerevoli italiani che Parodi (criollo dal cognome genovese) definisce gentaglia senza il minimo rispetto, compone un ritratto feroce ma leggero della cultura urbana di una Buenos Aires sull’orlo del peronismo e lo correda di titoli, citazioni e autori tratti da una vasta e ridicola biblioteca immaginaria, simbolo più che mai attuale della sovrabbondanza di una produzione irrilevante, fatta di libri che nessuno legge o di best sellers insensati.

Esilaranti e allo stesso tempo non inscrivibili nella categoria del semplice divertissement, questi racconti “incatenati” ebbero tanto successo che Bustos Domecq firmò, nel giro di un ventennio, altri volumi di racconti, e che un suo “discepolo”, Benito Suárez Lynch (di nuovo i cognomi dei nonni!), sfornò nel 1946 Un modelo para la muerte, in cui, con l’avanzare di Peròn, la satira politica fa la parte del leone e Buenos Aires diventa specchio di tutti i vizi nazionali.

Qui e adesso, naturalmente, ai lettori potrebbe venire il dubbio che i problemi di don Isidro siano troppo remoti e troppo “argentini” per interessarli, ma è il caso che si rassicurino: l’intero corpus dei racconti di Bustos Domecq non è invecchiato di un giorno e rappresenta una lettura incantevole per gli appassionati e gli esegeti del mistery classico, per chi riconosce in Borges e Bioy Casares due irraggiungibili maestri del ’900 e, naturalmente, per chi possiede un adeguato senso dell’umorismo.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2012