sabato 7 giugno 2014

da leggere: Aira e Bellatin

            
   
        César Aira                                   Mario Bellatin


Se gli artisti sono strani

Sull’esempio dello scrittore e poeta catalano Pere Gimferrer - che agli autori “strani” ha dedicato un saggio, Los raros, uscito nel 1985 -  il critico cileno Alvaro Matus ha compilato un elenco degli scrittori di lingua spagnola da considerarsi appunto raros, ovvero insoliti e bizzarri, in quanto consapevolmente lontani dai modelli egemonici. E tra essi non potevano ovviamente mancare César Aira e Mario Bellatin, prosatori di generazioni e nazionalità diverse, che tuttavia hanno parecchie cose in comune e che per una curiosa coincidenza hanno visto uscire quasi contemporaneamente due loro opere tradotte nella nostra lingua, dove, al contrario che in Francia e in Spagna, sono ancora poco conosciuti.

Di Aira, nato nel ’49 e considerato “lo scrittore più originale, eccitante e sovversivo delle letteratura ispanica”, nonché, almeno fino a qualche anno fa, “il segreto meglio custodito della letteratura argentina”, i lettori italiani più curiosi e avvertiti potrebbero aver già letto “Ema la prigioniera” (Bollati Boringhieri) o “Il mago” (Feltrinelli 2006), cui si è aggiunto “Come diventai monaca” (Feltrinelli), brillantemente tradotto da Raul Schenardi. Per Mario Bellatin, di origine peruviana ma nato nel 1960 in Messico, dove oggi vive, si tratta invece della prima traduzione italiana: il suo “Dama cinese”, tradotto per gli Editori Riuniti da Maria Nicola, esce nella collana Bookever. Entrambi hanno indubbiamente diritto a essere definiti raros, e non tanto perché sono scrittori furiosamente prolifici, che pubblicano a getto continuo con case editrici molto diverse tra loro – figurano insieme, per esempio, nei cataloghi di grandi gruppi editoriali come in quello della casa editrice più piccola delle due Americhe, l’argentina Eloisa Cartonera – , o perché, in tempi di best-seller mai inferiori alle 400 pagine, hanno optato per la più assoluta brevità.
La loro “stranezza” ha a che fare piuttosto con una concezione della letteratura che sfugge a ogni classificazione, si concentra più sul processo creativo che sul risultato, infrange deliberatamente le attese del lettore e lo mette alla prova, fa saltare le più collaudate convenzioni narrative e ruota principalmente attorno alla forma e al procedimento, intesi come strumenti per restituire radicalità all’arte e per spingersi sempre più oltre in cerca del nuovo, sfuggendo alla pura e semplice ars combinatoria della postmodernità. Scelte forti, insomma, connotate dalla noncuranza o addirittura dall’irriverenza per il mercato, e che suscitano la medesima reazione nei critici e nel pubblico: Aira e Bellatin vengono amati o odiati senza mezzi termini, e, nonostante dichiarino di scrivere “per tutti”,  non sono certamente destinati a un pubblico di massa. Le indubbie somiglianze e i molti punti di coincidenza tra le loro proposte e il loro modo di considerare la scrittura, però, non sminuiscono un’unicità che un rapido confronto è sufficiente a stabilire.
Aira, saggista oltre che narratore e autore delle vidas literarias di Alejandra Pizarnik e Copi, nelle sue novelitas mescola i materiali più diversi e frequenta tutti i generi, dalla parodia al romanzo storico, dal poliziesco al gotico, ibridandoli e stravolgendoli grazie all’uso costante di una cassetta degli attrezzi rubata alle avanguardie che ammira - dadaismo, surrealismo, costruttivismo russo -, senza mai smettere, come lui stesso dichiara, di attingere alla realtà che lo circonda (fatti di cronaca, particolari colti per strada, telenovelas, titoli di giornale) e soprattutto senza rinunciare a parlare attraverso i suoi personaggi. “Descrivere il personaggio di un romanzo dall’esterno è un atteggiamento paternalista che non mi piace. Entro in lui e gli regalo tutti i miei pensieri, mi sembra un atteggiamento più generoso”, ha dichiarato in diverse occasioni, e i lettori di “Come divenni monaca” scopriranno subito che è proprio così.
In questo brevissimo romanzo del 1993, infatti, il protagonista è una bambina/bambino di nome César Aira, che parla di sé al femminile mentre tutti gli altri le si rivolgono al maschile, e che ci racconta del suo primo, disgustoso assaggio di gelato alla fragola, di suo padre che uccide prontamente il gelataio e della vendetta a sorpresa della vedova di quest’ultimo. A chi lo interroga su questo librino pieno di misteriose incongruenze, capace di spiazzare il lettore a ogni riga e di ricordargli in modo perentorio che la libertà del romanziere è infinita, Aira usa rispondere che si tratta della sua autobiografia tra i sei e i sette anni, narrazione fedele di un anno di vita. 
“Se i lettori cercano nei miei libri qualcosa di me, non troveranno nulla”, sostiene invece Mario Bellatin, che si nasconde dietro una scrittura straordinariamente reticente, concentratissima, ai limiti dell’afasia. I brevi romanzi che ha scritto fino a oggi somigliano a sinistre rappresentazioni di una scena del delitto, ad ambigui tableaux vivants realizzati con severa economia di mezzi per mostrarci difetti fisici e deformità, solitarie agonie, bambini sofferenti, animali bellissimi o eroici, marginalità e morte. In “Dama Cinese” (uscito per la prima volta in Perù nel 1995) si incrociano tre storie apparentemente prive di collegamento, come in un film di David Lynch: quella di un ginecologo che conduce la doppia vita del bravo professionista e del frenetico frequentatore di bordelli; quella di un bambino dalla testa deforme che si impegna nel laboriosissimo recupero di un rimborso, lottando contro l’assurdità della burocrazia; quella di una anziana e ricca signora che va in giro con una corona in testa. Ma in realtà il bambino è il figlio di una paziente che deve la sua salvezza proprio al ginecologo, e la vecchia signora, rapitrice improvvisata, ha qualcosa in comune con il medico, perché tutti e due hanno in qualche modo provocato la morte dei propri figli.
Come nella stella a sei punte della dama cinese, gli incroci delle pedine creano disegni nuovi e imprevedibili, e, come in altri romanzi di Bellatin (per esempio Salón de belleza, storia di un travestito che alleva pesci tropicali nel suo negozio di parrucchiere, diventato un asilo per i malati di AIDS), sotto la voce glaciale di un narratore che rinuncia all’onniscenza e mostra solo ciò che vede, affiora l’ombra restìa e quasi magica della compassione. Interessato soprattutto alla creazione di un universo e di uno stile totalmente riconoscibili, Bellatin gioca sino in fondo la carta dell’assenza e del silenzio, dello spazio bianco tra una parola e l’altra: un’enorme, minuzioso lavoro di sottrazione progressiva,  che elimina via via gli aggettivi e annulla i dialoghi, che non propone finali e abolisce i nomi dei personaggi, che evita di definire i luoghi. E, alla lunga, il lettore si accorge di poter leggere i suoi romanzi come altrettanti capitoli di un’unica opera in cui, nonostante l’aspirazione dell’autore a “non esserci”, affiorano ossessioni personali e la peculiare, desolata visione del mondo di uno scrittore autenticamente raro.
Che dopotutto abbia ragione César Aira, quando dice: “se gli artisti sono strani, non è perché l’arte li resi tali, ma perché la stranezza li ha guidati all’arte”?

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel maggio del 2007