lunedì 30 giugno 2014

Da leggere: Josefina Vicens


Josefina Vicens

 


Il segreto del vuoto

Per molto tempo Josefina Vicens (1911-1988) è stata uno dei segreti meglio custoditi della letteratura messicana: autrice come Juan Rulfo di due soli memorabili romanzi e come lui nata in provincia, venne apprezzata da una ristretta cerchia di intellettuali ma per il grande pubblico e per buona parte della critica rimase una sconosciuta, tanto che i suoi libri sono stati per anni introvabili, finché la casa editrice Fondo de Cultura Económica li ha riproposti nel 2006 in un unico volume. Dopo tanta indifferenza, tuttavia, oggi l’esigua opera della Vicens è entrata nel canone dei classici ed è oggetto di studi sempre più assidui, oltre a riscuotere l’interesse dei giovani scrittori messicani e latinoamericani, alcuni dei quali la considerano un punto di riferimento e la citano tra i maestri cui si riconoscono debitori.

Tradotti in Francia già nel 1963 e più tardi negli Stati Uniti, i romanzi di Josefina Vicens sono da non molto disponibili anche in italiano, visto che a vent’anni dalla morte dell’autrice il piccolo editore sardo Angelica ha pubblicato Los años falsos (Gli anni falsi, 2008), uscito in Messico nel 1981, e che è da poco in libreria El libro vacío (Il libro vuoto, Editori Internazionali Riuniti, pag. 175), proposto nel 1958 da uno dei migliori editori del tempo, l’esiliato spagnolo Rafael Jiménez Siles, e ora tradotto da Roberta Arrigoni che, nella sua acuta postfazione, fa un’intelligente analisi di un testo divenuto leggendario almeno quanto la personalità dell’autrice.

Nel Messico degli anni ’50, una presenza come quella della Vicens appariva senz’altro inusuale: una figuretta androgina in panni maschili, che non si curava di nascondere le relazioni amorose con note attrici dell’epoca, come Anita Blanch o Raquel Olmedo. Ma, al di là delle apparenze mascoline, furono le sue scelte a renderla un personaggio fuori contesto in un paese dove l’indiscusso modello femminile era quello della moglie-madre disposta all’umiliazione e pronta al sacrificio; sostenitrice del suffragio femminile, sindacalista di primo piano, combattiva notista politica e cronista della tauromachia, donna indipendente e solitaria che era entrata nel mondo del lavoro a quattordici anni, Josefina Vicens aveva scelto di sottrarsi radicalmente all’universo chiuso, domestico e sottomesso al quale le convenzioni, la scarsa istruzione e il corpo in cui era nata sembravano destinarla.

Il fatto che al centro dei suoi romanzi ci siano due uomini (l’impiegatuccio José Garcia in Il libro vuoto e il rampollo delle classi alte Luis Alfonso Fernandez in Gli anni falsi), che parlano di sé in prima persona, rivelando la propria sostanziale incapacità di affrontare la vita e il rapporto con gli altri e con sé stessi, hanno indotto alcuni critici a parlare di travestitismo letterario, e gli altri a suggerire che avrebbe utilizzato la voce dei suoi protagonisti solo per colonizzarla e irrompere con forza nel discorso letterario maschile, irridendolo sottilmente.

Entrambe le suggestioni sono però troppo facili, e ha ragione piuttosto Fabienne Bradu quando sostiene che Il libro vuoto è profondamente flaubertiano: come il creatore di Madame Bovary, anche la Vicens poteva affermare José Garcia sono io perché, come ribadì spesso in articoli e interviste, a lui aveva attribuito il suo problema, ossia l’impossibilità e al tempo stesso la disperata necessità della scrittura. Il tema di Il libro vuoto, testo singolarmente scabro e asciutto che sembra riflettere su sé stesso, elaborato in otto anni di lavoro e limato con estenuante acribia fino all’ultima prova di stampa, è proprio questo: l’inferno bianco della pagina da riempire, intollerabilmente deserta e perciò destinata a farsi carcere e gabbia per chi si misura con essa.

Sin dalle prime righe José Garcia ci dice di essersi procurato due quaderni, uno nel quale raccogliere appunti e spunti per il suo libro futuro, l’altro pronto a ospitare il testo ormai levigato e rifinito che permetterà al protagonista di trovarsi e riconoscersi, ossia di esistere davvero al di là del lavoro squallido, delle ristrettezze economiche, dei figli quasi estranei, del legame con una moglie rassegnata e dei sensi di colpa per uno svogliato adulterio. Ma solo uno dei quaderni, quello degli appunti, verrà riempito dal disordinato flusso di coscienza cui Garcia ricorre per raccontare una vita irrilevante e soprattutto per scrivere del proprio non scrivere, mentre sul secondo quaderno non verrà tracciata una sola riga, nell’inutile attesa di una frase di attacco forte, esatta, incisiva, che se ne trascini dietro una seconda e una terza. E alla fine José, scrittore senza letteratura, si ritroverà ad aver scritto un non-libro, un antiromanzo fondato sull’impotenza che sperimenta ogni sera, quando tenta invano di trasferire qualche parola dal quaderno pieno a quello vuoto, che è invece il vero libro, l’autentico romanzo, in cui l’ordine perfetto della pagina bianca resta aperto a ogni possibilità, mentre il silenzio e il desiderio si inseguono all’infinito. Ma, come nota Roberta Arrigoni a chiusura dell’ottima postfazione, non c’è troppo da compatirlo, perché la sua sorte non è in fin dei conti peggiore di coloro che verranno dopo di lui, e che Péter Esterhazy descrive così: [Lo scrittore postmoderno] è silenzioso, tiene la bocca chiusa, nel migliore dei casi se ne sta seduto a trafficare ed è già contento se riesce a descrivere il foglio di carta sul quale sta scrivendo.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato su Alfabeta nel giugno 2014

giovedì 19 giugno 2014

Da leggere: Roberto Arlt


Roberto Arlt




Un gorgo senza fondo

Nel corso della sua breve vita (1900-1942), Roberto Artl ha scritto incessantemente, con quella “forza di conservare sino all’ultimo la disponibilità all’incertezza che è condizione essenziale dei capolavori”, riconosciuta in lui da Juan José Saer. Un’opera imponente, inclassificabile e fuori da ogni canone, la sua, alla quale il lettore italiano si è avvicinato soprattutto attraverso i quattro romanzi (L’amore stregone, l’ultimo e il meno noto, è uscito per la prima volta quest’anno presso Intermezzi), mentre restano da tradurre gli innumerevoli racconti – a eccezione dell’ormai introvabile raccolta Le belve, la cui ultima edizione è quella di Baroni del 2002 –, i testi teatrali e infine le Aguafuertes porteñas, esempio straordinario di giornalismo narrativo che fortunatamente sta per essere antologizzato dall’editore Del Vecchio.

Tanto più interessante risulta dunque l’ultima proposta di Arcoiris, minuscola casa editrice salernitana che, nella sua sorprendente collanina di testi brevi dedicata a “Gli eccentrici” delle letterature latinoamericane, inserisce una nouvelle dell’autore argentino intitolata Un viaggio terribile (pag. 95 e. 10; la bella traduzione, la prima nella nostra lingua, è di Raul Schenardi, cui si deve anche la postfazione), scritta nel 1941 e pubblicata lo stesso anno: una storia bizzarra che, pur riprendendo ossessioni e motivi tipici di Arlt (la violenza, la presenza del male, la ricerca della felicità, la passione quasi ingenua per la scienza), non mancherà di stupire chi ha letto I sette pazzi o Il giocattolo rabbioso.

Proprio come nelle esotiche storie riunite in El creador de gorilas (1941) e ambientate in un’Africa in buona parte immaginaria, in Un viaggio terribile Arlt sembra allontanarsi dal realismo allucinato delle sue opere più note, nonché smentire l’opinione comune che lo vuole scrittore irreparabilmente argentino, anzi porteño, la cui luce, nota Cortazár, “si concentra e si limita all’interno del perimetro di una Buenos Aires che nessuno conosce meglio di lui”. Lasciandosi alle spalle la città che è protagonista e sfondo di gran parte della sua narrativa, qui l’autore esce letteralmente in mare aperto per raccontare il viaggio di un allegro truffatore costretto a imbarcarsi su una sorta di “nave dei folli” fin troppo allegorica, popolata da passeggeri che rappresentano altrettanti tipi caratteristici (il sacerdote presbiteriano ottuso e razzista, la devota zitella scozzese, la donna sensuale e disinibita, l’arabo lussurioso) e incarnano i difetti e i tic della borghesia, mentre l’improbabile equipaggio rimanda al popolo dei bassifondi presente in tante opere di Arlt. Disseminato di incidenti misteriosi, di furti, di amori nascenti, di manoscritti perduti, di baldorie celebrate sull’orlo del disastro, il viaggio sfiora la tragedia quando, in pieno oceano, la nave rischia di venire inghiottita da un gigantesco vortice, un maelstrom di ignota origine che suscita un terrore incontrollato tra i viaggiatori; e, se un salvataggio in extremis non mancherà, il finale sarà segnato da perdite e sorprese amare.

Nel corso del racconto il “realista” Arlt si avvicina sempre di più al fantastico, lo costeggia, lo sfiora, come già in altri testi in cui pare aver presente la lezione di Horacio Quiroga, da lui indicato come il suo cuentista preferito in un’intervista del 1929; ma non c’è dubbio che ancora più percettibile sia l’eco della letteratura popolare e dei suoi “fascicoli variopinti” citati nell’incipit di Il giocattolo rabbioso, indimenticabili avventure di carta cui si sovrappongono le impressioni registrate durante i rari e rapidi viaggi come inviato in Cile, Spagna, Marocco. La nota più insolita (ma non troppo, per gli attenti lettori di Arlt e soprattutto per chi conosce il suo teatro sospeso tra crudeltà, farsa e grottesco) sta però nell’esercizio di uno humour nerissimo e senza freni, che si prende gioco di tutti i personaggi e perfino dello stesso autore, la cui attività di inventore senza fortuna si riflette nella pazzia della incantevole Annie, falso ingegnere chimico e autentico folle. Come sempre capace di spiazzare, Arlt riesce a rendere comica e quasi surreale la scena di un linciaggio, e anche qui smentisce una volta di più coloro che gli rimproveravano di “scrivere male” o che, come Onetti e Cortazár, si affrettavano a perdonarglielo: un luogo comune da cancellare, alla luce di uno stile diretto, denso di immagini e più che mai contemporaneo.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel giugno del 2014

domenica 15 giugno 2014

Da leggere: Yuri Herrera


Yuri Herrera




La trasmigrazione dei corpi

Il ricco panorama della letteratura messicana è oggi tra quelli che, accanto ai grandi autori del recente passato, offrono all’editoria internazionale una rosa di nomi specialmente interessanti: scrittori fra i trenta e i quarant’anni ormai lontani da “padri” celebri e ingombranti come Octavio Paz, Carlos Fuentes, Juan Rulfo, eppure più inclini ad accantonarli con tranquilla indifferenza o a ripensarli criticamente, piuttosto che a dileggiarli o a coprirli di insulti come quelli che Roberto Bolaño e i suoi poeti infrarrealistas riservarono a Paz e a Carlos Monsiváis negli anni ’70.

Pronti a esibire registri linguistici e narrativi differentissimi, che vanno dalla sperimentazione più audace al realismo “sporco” a un intimismo così delicato da risultare esangue, i nuovi autori messicani sembrano non avere molto in comune, se non il rifiuto di ogni etichetta generazionale e l’estraneità a movimenti, scuole, teorie e programmi come quelli che alla fine degli anni ’90 originarono il Manifiesto del Crack, dichiarazione di rottura con i narratori del postboom sottoscritta tra gli altri da Jorge Volpi e Ignacio Padilla. E, tuttavia, attraverso questo paesaggio composto di individualità letterarie così fermamente rivendicate corre una sottile e incerta linea di confine che sembra accennare all’esistenza di due schieramenti opposti: da una parte quanti preferiscono sottrarsi all’influenza del “mito messicano per eccellenza” (la definizione è di Cristopher Domínguez Michael), cioè il narcotraffico e le sue conseguenze, e dall’altra quanti non vogliono allontanare l’amaro calice della terribile “messicanità” che impregna di sé l’immaginario attuale. Se i primi fanno giustamente notare che una letteratura prigioniera di un unico argomento è inconcepibile – anzi, non è letteratura ma “un carcere mentale”, dice qualcuno –, i secondi hanno davanti a sé due strade: adattarsi alle richieste del mercato editoriale, affamato di una narcoliteratura divenuta un vero e proprio “genere” altamente vendibile, oppure accostarsi alla tragedia nazionale nei modi meno prevedibili, affrontarla con linguaggi nuovi, sublimarla, tradurla in un’atmosfera o in un’allusione, e perfino in satira e risata.

Tra le tante vie possibili, una delle più complesse e personali l’ha scelta Yuri Herrera, nato nel 1970 ad Actopan, laureato a Berkeley e oggi professore all’Università di New Orleans, il cui progetto narrativo appare ormai ben definito grazie al suo ultimo romanzo, che completa una trilogia sul Messico contemporaneo elaborata con riflessiva lentezza nell’arco di dieci anni, e che gli ha guadagnato un considerevole numero di lettori, l’approvazione della critica, diversi premi importanti e un prestigio cresciuto col tempo in tutto il mondo di lingua spagnola, ma anche in Nordamerica e in Europa.

Se nei primi due testi Herrera aveva raccontato in forma di crudelissima fiaba alcuni aspetti della realtà messicana come il potere narco e la sua capacità di produzione culturale, o il duro viaggio verso gli USA degli indocumentados e la loro fantasmatica presenza di immigrati, descrivendo con tocchi precisi ed essenziali luoghi come il deserto e la frontiera, qui lo vediamo spostare l’asse della narrazione in una imprecisata realtà urbana, una metropoli labirintica dove lo Stato ha abdicato al compito di salvaguardare la vita e la sicurezza dei cittadini, trasformando la propria impotenza in complicità. Tre sfondi emblematici, insomma, e tre protagonisti che lo sono altrettanto: un cantante che si affranca dal servizio di un signore della droga grazie al potere dell’arte (La ballate del re di denari, La Nuova Frontiera 2011); una ragazza che attraversa il confine per cercare il fratello perduto e nel corso della sua migrazione clandestina ripercorre simbolicamente i nove livelli del Mictlan, il regno dei morti (Segnali che precederanno la fine del mondo, La Nuova Frontiera 2012); e infine un giovane avvocato che, in un contesto di violenza estrema, appiana questioni impossibili, servendosi solo delle parole e nuotando sotto la superficie immobile della legge (il nuovissimo La trasmigrazione dei corpi, Feltrinelli, pag. 95).

È quest’ultimo, il Mediatore, versione moderna dell’abile e saggio Alfaqueque – colui che nel medioevo negoziava la libertà degli spagnoli prigionieri dei musulmani –, a guidare il lettore lungo le strade di una città ammutolita e deserta per colpa di un’epidemia misteriosa, zigzagando insieme ai suoi improbabili assistenti tra i posti di blocco e gli arbitrii di una polizia brutale, fino a risolvere un problema che, oltre alla rivalità tra due famiglie criminali, include la “trasmigrazione” per nulla immateriale di corpi senza vita, finiti nelle mani sbagliate e ostaggi di un furore troppo antico per venire sradicato.

Il romanzo è breve, la trama semplice, com’è del resto abitudine dell’autore che qui conferma tutte le qualità e caratteristiche della sua opera, in primo luogo la scelta di narrare il presente ricorrendo alla laconicità stilizzata del mito e a una costante evocazione della tragedia (la faida tra famiglie rivali e i due cadaveri appena adolescenti hanno accenti shakespeariani), ma anche del narcocorrido, della telenovela, del melò cinematografico messicano anni ’50. Un innesto tra classici e cultura popolare attentamente calibrato, che non si ferma alla struttura del racconto ma investe soprattutto l’uso del linguaggio, perché la prosa di Herrera mescola termini colti al fraseggio orale, fitto di messicanismi e di gergo dei narcos, e poi lavora il tutto fino a ottenere un impasto pieno di neologismi e invenzioni, musicale e sonoro, però limato e tenuto sotto controllo al punto da apparire scarno. E se la tecnica è di derivazione rulfiana, il giovane scrittore la adopera in modo così personale da farla completamente sua e da porre allo stesso tempo ostacoli solo in parte superabili alla trasposizione in un’altra lingua. Nonostante la traduzione di Pino Cacucci riveli l’accurata ricerca delle migliori soluzioni possibili è infatti inevitabile che al lettore italiano arrivi soltanto una pallida eco del ritmo, del sapore, dell’intelligenza di una scrittura distillata con minuzia, fino ad apparire fluida e naturale, là dove, invece, è infinitamente costruita e pensata.

Ma anche così, in una lingua diversa che può rendergli giustizia fino a un certo punto, La trasmigrazione dei corpi ci appare per quello che è: il romanzo di uno scrittore dalla voce inconfondibile, capace di rappresentare la situazione sociale e politica del Messico senza concedere nulla agli stereotipi, al sensazionalismo e alla maniera ormai esausta della narcoliteratura, e che al contempo si rivela suscettibile di interpretazioni più ampie, visto che in fin dei conti si parla di temi universali, ossia di vendetta, potere, violenza, morte e ancora morte, insomma di un caos che la parola e la ragione (il Mediatore) tentano di ricomporre per puro spirito di sopravvivenza, forse invano, ma ostinandosi ogni volta a ricominciare daccapo.

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel mese di maggio 2014

sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Rodolfo Walsh


Rodolfo Walsh



Walsh per sempre

Grande giornalista, pioniere della crónica – ossia di un genere che affronta l’inchiesta con gli strumenti della narrativa e che in America Latina è intensamente praticato –, traduttore, compilatore di preziose antologie, commediografo, scrittore, direttore di riviste popolari, di agenzie di stampa e di giornali clandestini, crittografo dilettante che nei suoi anni cubani decifrò il dispaccio segreto in cui si annunciava lo sbarco nella Baia dei Porci, montonero catturato con le armi in pugno e trascinato moribondo nelle viscere della ESMA: tutto questo, e molto di più, è stato Rodolfo Walsh, intellettuale multiforme e coerente che ha lasciato un segno profondo e duraturo nella cultura non solo argentina e latinoamericana.

Anche per lui, tuttavia, rischia di valere quanto Juan Baptista Duizeide ha osservato in suo recente saggio su Haroldo Conti (Alrededor de Haroldo Conti, Ediciones Sudestada 2013), altro autore argentino di indiscutibile rilevanza e membro del Partido Revolucionario de los Trabajadores, la cui vita sembra curiosamente speculare a quella di Walsh, nonostante le considerevoli differenze politiche, letterarie e caratteriali che li divisero. Conti, inghiottito dall’ESMA alla fine del ’76 e torturato a morte, secondo Duizeide non verrebbe considerato per la sua opera, ma in quanto appartenente a “una nuova categoria, quella degli scrittori desaparecidos”: un’etichetta totalizzante, continua lo studioso, che da una parte ne appiattisce la complessità umana e letteraria, e dall’altra assomiglia a “una criminale imposizione del nemico”. Non si può negare, infatti, che l’aura di tragico eroismo conferita a Walsh dalle circostanze della sua scomparsa, così come la sua qualità di militante e di straordinario giornalista impegnato a narrare l’Argentina del ventennio ’50-’70, abbiano contribuito a porne in secondo piano l’opera più prettamente letteraria, che lo colloca tra i più grandi scrittori di lingua spagnola del ’900. A sancire definitivamente la sua entrata nel canone della letteratura argentina è stata la pubblicazione dei Cuentos completos, apparsi in Spagna nel 2010 per le edizioni Veintisieteletras e curati da Viviana Paletta, in cui alle sue quattro raccolte più note si sommano ventitré racconti mai apparsi in volume e usciti su diverse riviste (un’ altra edizione, curata e prefata da Ricardo Piglia, è apparsa l’anno scorso in Argentina presso le gloriose Ediciones de la Flor di Daniel Divinsky, con la preziosa aggiunta di un testo inedito e di alcune interviste introvabili e rivelatrici che Piglia e Rosalba Campra fecero all’autore).

Solo oggi, in coincidenza con il trentasettesimo anniversario della morte di Walsh, avvenuta il 25 marzo del 1977, parte di questi racconti arriva finalmente in Italia, nella traduzione di Anna Boccuti ed Elena Rolla per l’editore La Nuova Frontiera: riunite in un unico volume intitolato Fotografie (pag. 211), le antologie I riti terreni del 1965 e Un chilo d’oro del 1967 non mancheranno di stupire chi, conoscendo la storia di Walsh e avendo letto almeno una delle sue tre grandi inchieste “narrate” (l’unica tradotta è Operazione massacro (La Nuova Frontiera 2011); le altre due sono Quien mató a Rosendo e El caso Satanowsky), potrebbe aspettarsi una letteratura di esplicita denuncia, invece di una narrativa capace di affidare al lettore il compito di individuare il filo rosso che testimonia dell’impegno di uno scrittore, ma anche e soprattutto della sua devozione alle ragioni del racconto. A sorprendersi, però, saranno soprattutto quanti già conoscono i racconti gialli di Variazioni in rosso che, pubblicate in italiano nel 1998 da Sellerio, risalgono al 1953 e rappresentano l’esordio letterario di Walsh. La sua scrittura degli inizi è infatti legata al poliziesco classico inglese e americano, quello firmato Ellery Queen, Patrick Quentin e soprattutto Cornell Woolrich, tutti autori da lui tradotti per la Hachette, casa editrice dov’era entrato giovanissimo e per la quale aveva anche curato una antologia, Diez cuentos policiales argentinos, che includeva racconti di Borges, Manuel Peyrou e Jeronimo del Rey.

La distanza tra Variazioni in rosso e Fotografie si nota a colpo d’occhio: pur gradevoli, i racconti polizieschi di Walsh sono tutto sommato modesti e lievemente scolastici, e niente sembra annunciare la lingua ruvida ed essenziale e lo stile sincopato, le frasi tronche al punto da apparire ermetiche ai più pigri e che, scrive giustamente Anna Boccuto nella sua bella postfazione, sembrano esigere la complicità di chi legge e fanno della voluta incompletezza, delle cesure improvvise e delle infinite allusioni una straordinaria risorsa narrativa, sollecitando la capacità di navigare tra il non detto e la pluralità dei punti di vista che l’autore tratteggia e accosta (si veda il doppio binario, anche grafico, su cui scorrono in parallelo le voci di un traduttore e del suo editore nel bellissimo Nota a piè di pagina, in cui il testo in basso, frutto di una desolata emarginazione umana e culturale, finisce per divorare e cancellare quello in alto, espressione di una dominante e feroce “normalità”).

È attraverso racconti come Foto o Lettere che vediamo affiorare l’immagine di un’Argentina provinciale e remota durante la Década Infame, gli anni che fra il 1930 e il 1943 videro un succedersi di colpi di stato e regimi dittatoriali: storie di ragazzi come Mauricio, condannati alla rabbia e alla follia dalla impossibilità di esprimere la propria visione del mondo, ma anche ritratti di famiglie come quella dei potentissimi e corrotti Tolosa, pronti a enormi soprusi cui a stento ci si preoccupa di dare una spolverata di legalità, e di comunità rurali immerse nel torpore e nell’impotenza. Ed è in storie magistrali come Irlandesi dietro a un gatto e I riti terreni che troviamo l’eco dell’infanzia e della preadolescenza di Walsh, trascorse in due collegi retti da religiosi e creati per i figli dei connazionali meno abbienti dagli irlandesi immigrati in Argentina: quel periodo difficile e oscuro si trasforma in narrazione efficacissima ed inquietante su un’età della vita e su una comunità chiusa in balìa di una cultura violenta e gerarchica, giustificata dalla religione e dalla fedeltà ai valori del “vecchio mondo”. Insieme a El 37 e Un oscuro día de justicia, presenti nei Cuentos Completos ma non in Fotografie, i racconti formano una sorta di iniziatica “saga degli irlandesi” che sfiora il capolavoro, come ha riconosciuto Ricardo Piglia.

Ed è ovvio che ad aprire l’antologia sia il più celebre fra i racconti di Walsh, quello che fa da ponte tra la sua attività di giornalista e quella più squisitamente letteraria: Quella donna, dialogo tra un colonnello dei servizi segreti e un giornalista che vuole a tutti i costi scoprire dove si trova il cadavere della mai nominata Evita Perón, prima offerto all’adorazione popolare nella sede della CGT e poi trafugato nel 1955 dal governo golpista e nascosto per sedici anni, in quanto oggetto intrinsecamente sedizioso, fino ad approdare nel cimitero Monumentale di Milano. Dovute all’odio delle oligarchie, a passioni più che torbide, all’adorazione smisurata e santificante dei suoi fedeli e infine a una incontestabile necrofilia dai contorni collettivi, le incredibili peripezie di questo cadavere viaggiatore, profanato e violato, sono note a chiunque conosca la storia argentina o abbia semplicemente letto il romanzo-crónica Santa Evita di Tomás Eloy Martínez (Edizioni Sur 2012), altro grande giornalista e scrittore argentino che ha condiviso con Walsh il desiderio di scoprire la verità su quel corpo che l’imbalsamazione faceva apparire incorrotto. Su di esso, come attorno alla figura enigmatica, travolgente e modernissima di Evita, è nata del resto una vasta letteratura che sfiora tutti i possibili registri, dalla satira alla Copi al melodramma, dal romanzo storico al gotico dei tre racconti neri e “maledetti” del poeta Néstor Perlongher: ma l’essenza, il puro distillato di questo dramma tutto argentino, vanno cercati nella raffinata e inimitabile economia di mezzi del breve testo di Walsh, che una volta di più e senza discostarsi dalla verità è riuscito a trasformare in letteratura le vicende del suo paese, incarnate in un singolo individuo e proprio per questo, forse, pronte a diventare storia di tutti.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel marzo del 2014

Da leggere: Emiliano Monge


Emiliano Monge




Un cielo arido

Nel 2011 la più importante fiera del libro di lingua spagnola, quella di Guadalajara, per festeggiare il suo venticinquesimo anniversario ha scelto e invitato venticinque scrittori – giovani e meno giovani – considerati i più “segreti” dell’America Latina, per collocare finalmente sotto i riflettori opere e nomi non sufficientemente noti o apprezzati. E tra quei venticinque, provenienti da tutto il continente, c’era anche Emiliano Monge, nato a città del Messico nel 1978 e ormai da alcuni anni trapiantato a Barcellona, autore nel 2008 di un libro di racconti, Arrastrar esa sombra (Sexto Piso), e nel 2010 di un romanzo, Morirse de memoria (Morire di memoria, La Nuova Frontiera 2012), capaci di meritargli l’apprezzamento di molti critici, compreso il polemico José Agustín (“Se fossi giovane vorrei scrivere così. Il romanzo di Monge non accetta i limiti”) che negli anni ’60 aveva tentato di mettere a ferro e fuoco la letteratura messicana insieme ai giovani dell’Onda, corrente letteraria vagamente beat.Tre anni dopo, Monge non è più così “segreto”: con la sua ultima opera, El cielo arido (Random House Mondadori 2012), ha vinto l’ importante Premio Jaén de Novela ed è approdato alla traduzione in diverse lingue, compresa la nostra: La Nuova Frontiera ha da poco pubblicato, infatti, Cielo arido, nella versione italiana della brava Natalia Cancellieri, alle prese con un testo indubbiamente non facile del quale è riuscita a rendere quasi per intero il fascino e lo spessore linguistico.

Un romanzo finalmente maturo, che mantiene tutte le promesse contenute nei precedenti testi dell’autore e sfida in più modi chi legge: prima di tutto chiedendogli di addentrarsi in una storia raccontata in modo non lineare e basata invece su audaci salti temporali; poi mettendolo a confronto con la presenza di una voce narrante così forte e definita da diventare un personaggio a sé; e infine esponendolo a una prosa ricca di frasi lunghe e complesse, a innumerevoli iterazioni che le conferiscono un ritmo incalzante e ipnotico, a un uso peculiare della punteggiatura, a visioni e immagini di una violenza oscura, senza fine né principio, resa ancor più perturbante dall’estrema e quasi pittorica cura per il dettaglio.

Il protagonista di Cielo arido è Germán Alcántara Carnero detto il Gringo, un uomo che di questa violenza è l’incarnazione, personaggio straordinariamente vivo e riuscito che, nato nel cuore della meseta, fugge di casa ancora bambino dopo aver ucciso il padre, capeggia una crudele banda di adolescenti, si sposta oltre confine e lavora nelle miniere degli Stati Uniti. Ma anche là uccide, e per questo è costretto a tornare nel suo paese dove gli sarà affidato – in quel medesimo Messico rurale che vive nei romanzi di Juan Rulfo, Elena Garro, Daniel Sada e molti altri, grandi e meno grandi – il distretto di Lago Seco, una sorta di minuscolo impero “che conta 30.234 abitanti, tutti figli e nipoti e bisnipoti dell’incesto, uomini e donne con le vene che, per usare le parole del Nostro, traboccano di rancore, disgusto, paura, servilismo, odio e falsità…”.

Metà cacicco e metà predone, per anni il Gringo amministra una (in)giustizia personale e feroce, incendia, uccide, tortura, assiste alla morte della sola donna che ha amato, al suicidio del suo unico amico, alla nascita di un figlio deforme… finché a un tratto decide di mettere un punto fermo alla violenza e insieme ai cani che ha adottato si ritira nella sua casa dalle porte eternamente chiuse dalla quale uscirà solo per essere ucciso. Dal 1901, anno della sua nascita, al 1981, quando il deserto lo vede “andare oltre i confini della carne”, Germán Alcántara sembra vivere più di una vita, crudele e disperata come il paesaggio che lo circonda e altrettanto irredimibile. E i momenti più importanti della sua esistenza, allineati senza alcun ordine cronologico da un narratore che delucida, spiega, anticipa e interviene, e che lo chiama con nomi diversi (il Nostro, il Penitente, il Tremebondo), coincidono spesso con episodi cruciali della storia messicana, dalla rivoluzione del 1910 alla guerra cristera, fino al narcotraffico: perché la violenza, la corruzione, l’ingiustizia che impediscono ogni volta la redenzione cui il protagonista aspira, vengono da lontano e, sembra dirci Monge, sono tra le radici più profonde e antiche del Messico, quelle che continuano a intralciarne il viaggio tormentato verso il miraggio di una normalità sempre più lontana.

La storia di Germán Alcántara è, dunque, la metafora di una vicenda nazionale, di una Storia alla quale nessun messicano (o nessun latinoamericano) può dichiararsi estraneo e che contamina e condiziona anche chi pretende di uscirne o di rinnegarla; allo stesso tempo, però, ci riguarda tutti, è uno specchio che riflette quanto è accaduto e va accadendo in innumerevoli altrove, a volte lontanissimi dal Messico e dai suoi deserti, come lo sono certi “cortili” di casa nostra.

Tutto questo Monge riesce a dirlo, a raccontarlo, nel modo meno prevedibile e scontato, senza cadere in nessuno degli stereotipi che l’estetica della violenza sembra comportare ed esigere (pensiamo solo alla literatura de la violencia fiorita in Colombia o alla cosiddetta “letteratura del narcotraffico” messicana, non priva di meriti ma divenuta in buona parte un filone ripetitivo quanto commerciale); per questo giovane autore che non ha paura di fare riferimento a “padri” impegnativi, da Rulfo allo spagnolo Juan Benet, non per “ucciderli” ma per meglio pervenire a un suo proprio linguaggio, la forma della narrazione ha un’importanza capitale: i contenuti sono scolpiti e modellati da una prosa personalissima che a volte sfiora la poesia, e la struttura che sorregge il romanzo, costruita con grande abilità, rimanda continuamente dalla dimensione individuale a quella collettiva grazie a una complessa architettura fatta di schegge e frammenti accostati con attenzione.

È interessante notare come, all’interno dello stimolante vivaio di voci nuove dell’ultima letteratura messicana, Monge abbia scelto una strada che, insieme ad alcuni autori molto diversi da lui (per esempio il formidabile Yuri Herrera), lo ha portato lontano dal parco-giochi generazionale dell’autoficción, ossia da quell’insistito parlare di sé apertamente o in controluce, avendo come bussola la propria infanzia o adolescenza con i loro inossidabili riti di passaggio, che accomuna tanti giovani scrittori non solo messicani e latinoamericani – tranne in casi prodigiosi come l’autobiografico Canción de tumba di Julián Herbert (che tra poco apparirà anche in Italia per merito dell’editore Granvìa) – corre così spesso il rischio di trasformarsi in pura chiacchiera autoreferenziale.

Quello che interessa a Monge, e lo si intuisce dalle prime pagine, è una letteratura che sappia re-immaginare la realtà per restituircene il senso (o la mancanza di senso) e che non abdichi a una costante e indispensabile ricerca formale: avere qualcosa da dire e farlo senza rinunciare alla scrittura, in tempi che presumono di poterla “insegnare” in venti lezioni, è già molto, moltissimo. Ed è uno dei motivi per i quali Cielo arido andrebbe letto, e magari riletto.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio del 2014

Da leggere: Daniel Sada


Daniel Sada






Diabolicamente difficile

Non c’è da stupirsi se un maestro come il messicano Daniel Sada (1953-2011), autore di una vasta opera narrativa – otto antologie di racconti e undici romanzi – sviluppata nel corso dell’ultimo trentennio, viene tradotto in italiano solo due anni dopo la sua morte, avvenuta a Città del Messico nello stesso giorno in cui gli veniva assegnato il Premio Nacional de Ciencias y Artes. Ormai considerato un classico nel suo paese, immensamente lodato dalla critica latinoamericana e spagnola, come da autori quali Fuentes, Poniatowska, Mutis e Roberto Bolaño (lettore finissimo, quando non si lasciava vincere da antipatie personali o da eccessivi entusiasmi amicali), Sada è infatti uno scrittore impegnativo, molto lontano dal peraltro inesistente gusto medio cui si rifà ormai il mercato editoriale e dalla richiesta di immediata, facile leggibilità che ne consegue; né va sottovalutata la “sfida titanica” (la definizione è del più esigente tra i critici messicani, Christopher Domínguez Michael) che rappresenta per il traduttore la sua scrittura inconfondibile, basata su una lingua lavoratissima dalla sintassi spesso frammentata, su un vocabolario sovrabbondante in cui neologismi d’invenzione si mescolano a espressioni colloquiali e locali in un colto gioco di rimandi e trasformazioni, e infine sul ritmo e la cadenza della frase, in cui si intravedono gli ottonari dei corridos, della rancheras e della poesia popolare.

Una proposta estetica radicale e ben definita, in cui confluiscono la lettura dei classici (“La Divina Commedia per me è un modello. Volevo scrivere così”, confessa Sada in un’intervista), l’influenza del Secolo d’Oro spagnolo e della tradizione picaresca e un confronto continuo con le voci della strada, nonché la fluviale dilatazione di vicende in apparenza minime, che però riescono a trasformarsi nell’esplorazione non solo di un paese e della sua storia dolente, ma anche “dell’essenza dell’uomo”, come osserva Alvaro Mutis riferendosi a quella che viene considerata l’opera capitale dello scrittore messicano, ovvero Porque parece mentira la verdad nunca se sabe, inarrivabile romanzo su una frode elettorale compiuta in un paesino di frontiera. Le sue 650 pagine, popolate da oltre 90 personaggi, sono fatte di infiniti episodi all’apparenza indipendenti ma che si inseriscono in un disegno complessivo, componendo un mosaico fantasmagorico che non ha bisogno di ricorrere ai trucchetti del realismo magico né a quelli del “crasso realismo” tipico, secondo Sada, di buona parte della letteratura messicana, influenzata prima dal naturalismo francese e poi da quello nordamericano. È soprattutto a questo romanzo “diabolicamente difficile” (così lo definisce Domínguez Michael) che si deve la fama di Sada, ma tutta la sua opera – dall’ancora acerbo e tuttavia notevolissimo Lampa vida (1980) fino al postumo El lenguaje del juego (2012), sull’ineluttabile rovina di un paesetto di frontiera e di una famiglia, inghiottiti dal narcotraffico – testimonia la capacità di produrre opere differenti che non si è mai tentati di definire “minori”.

La magnifica responsabilità di presentare per la prima volta al pubblico italiano questo autore di cui non si può ignorare l’esistenza se l’è appena presa l’editore Del Vecchio, che ha affidato a Carlo Alberto Montalto il monumentale compito – assolto benissimo, va detto – di tradurre uno dei romanzi più importanti di Sada, ovvero Quasi mai (vincitore del premio Herralde nel 2008 e uscito presso Anagrama l’anno seguente), in cui i temi portanti del denaro e del sesso si incarnano in personaggi “senza qualità” impigliati in una trama che potrebbe rimandare al cinema popolare e sentimentale messicano degli anni ’40 o ’50, ma che finisce per disegnare, invece, il ritratto spietato della provincia norteña negli anni del secondo dopoguerra: una gabbia le cui sbarre sono la corruzione della vita pubblica e il trionfo delle apparenze, un cattolicesimo superstizioso e asfissiante, un machismo senza scampo che divide le donne in vergini e puttane, un mondo femminile che custodisce e tramanda la morale ufficiale e il cui ovvio risvolto è l’esistenza di un vasto universo postribolare.

Demetrio Sordo, il protagonista, è un giovane agronomo che vive e lavora nel nord del Messico (proprio nella stessa zona desertica e di frontiera in cui Sada è nato e attorno alla quale è cresciuta una produzione letteraria ed artistica tra le più interessanti del continente), e che trova nel sesso a pagamento l’antidoto a una vita convenzionale e noiosa: un lavoro che non gli piace, l’alloggio in una desolata pensione, la solitudine, la consapevolezza che il suo destino è, nonostante il suo vago desiderio di rivolta, quello già disegnato dal padre defunto e dalla madre invadente. Ma agli amplessi quotidiani e costosi con la prostituta Mireya, ossessione felice che neutralizza la routine, si sovrappone l’amore per la casta, purissima Renata dagli occhi verdi, la cui conquista presuppone non solo il matrimonio, ma anche il superamento di una serie di prove che includono l’assoluta astinenza (il primo bacio non arriverà che al secondo giorno di matrimonio), lunghe attese, penitenze assortite, insomma il rispetto di un codice quasi medioevale di amor cortese che alla fine del percorso offre la copula istituzionale e benedetta con “una puttana di tutt’altro tipo, emblematico in quanto legale”. Abbandonata crudelmente Mireya, che crede incinta, Demetrio si imbarca così in una sorta di viaggio iniziatico che include un simbolico rientro nel ventre materno (deve infatti rimettersi, che lo voglia o no, nelle mani possessive e ansiose della madre e della zia) e il cui approdo non è solo la vita coniugale, ma la crescita sociale ed economica, una maturità cinica e redditizia (“Avrebbe voluto mettersi quanto prima in combutta con dei politici, in modo da poter rubare (buono buono) protetto dalla legge…”), insomma un posto nel mondo. E parallelamente al suo va-e-vieni emozionale, sessuale e lavorativo, si dipana quello del denaro accumulato, perduto, rubato, nascosto, investito, spostato da un antieroe che per i “soldi a palate” nutre un trasporto affine a quello per il “puro sollievo” procurato dal corpo femminile.

Continuamente sollecitato e interpellato dalla voce di un narratore che riepiloga, spiega, anticipa, il lettore si trova dunque alle prese con quella che può sembrare una banale storia di provincia ambientata nel profondo Messico durante la presidenza di Miguel Alemán e che invece è molto di più: un romanzo ironicamente e apertamente erotico, fatto di scatole cinesi che contengono ciascuna un inferno in miniatura; un romanzo esilarante e picaresco sul moralismo immorale di una piccola borghesia nascente e sulla sua inverosimile e codificata ipocrisia; un romanzo messicano sino allo spasimo che tuttavia si propone come universale grazie alla sua inequivocabile natura di Bildungsroman; e infine un romanzo dalla coloritura storica che evoca una Frontera abitata solo dalla polvere e dal silenzio, priva di strade e di luce elettrica, diversissima da quella oggi devastata dal parossismo sanguinario imposto dal narcotraffico, ma la cui vita quotidiana è comunque intessuta di corruzione e violenza, terribile presagio del futuro. E a sostenere tutto questo c’è una prosa di magistrale peculiarità, le cui sperimentazioni vengono troppo spesso e troppo sbrigativamente considerate come un’espressione del barroco o del neobarroco latinoamericano (quello, per intendersi, praticato da Carpentier, da Lezama Lima o da Severo Sarduy, scrittori caraibici con altre radici, altre estetiche, un altro registro linguistico), oppure dell’avanguardia, nonostante Sada abbia dichiarato di non considerarsi un autore “che abbia a che vedere con avanguardie o mode”. Inclassificabile e impossibile da collocare in un canone di qualsiasi genere, l’opera di questo scrittore “lento” e dalla scrittura minuziosa rappresenta insomma una sfida ammaliante per la critica e per i lettori, che dovranno prendersi il loro tempo per sondare la profondità delle correnti da cui è attraversata, ma che a ogni pagina si troveranno a tu per tu con la ricchezza inesauribile di un autore scrittore capace di correre rischi estremi pur di seguire la strada della propria eccezionalità.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel gennaio del 2014

Da leggere: Julio Cortázar


Julio Cortázar




Una città corrotta e inesplicabile

“Il mobile degli inediti è un armadio alto più di un metro e pieno di cassetti. Una specie di mobile di plastica, gonfio di carte”. Così Mario Muchnik, leggendario editore nato a Buenos Aires ma trapiantato giovanissimo in Europa, descrive l’archivio “disordinatamente ordinato” in cui il suo amico Cortázar conservava inediti, lettere, abbozzi, quaderni che hanno permesso alla sua opera di continuare a crescere, di sovvertire le cronologie consolidate, e in un certo senso di “autoriscriversi” alla luce del lavoro fatto dai curatori e dall’erede Aurora Bernárdez.

È da quei cassetti che sono spuntati i materiali preparatori di Rayuela, romanzo del quale tutto il mondo di lingua spagnola ha celebrato nel 2013 il cinquantenario, tra mostre, edizioni speciali, conferenze e dibattiti; è da lì che vengono i sette volumi della corrispondenza e le quasi cinquecento pagine di Carte inaspettate (Einaudi 2012), che includono racconti, interviste “allo specchio”, poesie, scritti politici. E un altro regalo del mobile di plastica sono le edizioni postume dei primi romanzi di Cortázar, Divertimento (1949) e L’esame (1950), testo che ne ha poi è generato un altro, Il diario di Andrés Fava, grazie all’estrapolazione di un lunghissimo capitolo dedicato ai pensieri e alle annotazioni di uno dei personaggi principali.

Tre opere, dunque, scritte in Argentina poco prima che lo scrittore la lasciasse nel 1951 per stabilirsi definitivamente a Parigi. E soprattutto tre opere mai inserite nella categoria dei “romanzi morti, conservati dagli autori a testimonianza del proprio fallimento” (la definizione è di un altro argentino, Tomás Eloy Martínez), perché non solo Cortázar le salvò dalla distruzione cui nel 1960 aveva condannato un altro romanzo, Soliloquio, ma le lasciò “quasi pronte per la pubblicazione”, giudicandole di un certo interesse per i suoi lettori.

Pubblicati in lingua spagnola nel 1986, due degli inediti sono già usciti in Italia (Divertimento nel 2007, Il diario di Andrés Fava nel 2011) per le edizioni Voland, che ora mandano in libreria anche L’esame, affidato alla brava Paola Tomasinelli, qui alle prese con una lingua piena di invenzioni e di vecchie espressioni porteñas ormai in disuso, e con una scrittura dalle tinte surrealiste, abbastanza sperimentale da richiedere al traduttore un certo impegno. Proprio come i testi precedenti, anche questo sembra confermare un’idea diffusa, e cioè che Cortázar, straordinario autore di racconti, non abbia raggiunto esiti altrettanti felici nel romanzo; e tuttavia L’esame presenta motivi di interesse sufficienti a non archiviarlo come “preistoria cortazariana”, o come un semplice testo di transizione non del tutto riuscito, in cui si affacciano elementi che sembrano annunciare Rayuela, l’obra maestra divenuta lettura iniziatica per i giovani degli anni ’60 e ’70, ma che oggi una parte della critica, pur senza condividere il duro giudizio di César Aira (“Il miglior Cortázar è un cattivo Borges”), considera alquanto logorata dal passare degli anni.

I punti di contatto sono numerosi: il piccolo clan di amici, così simile al Club del Serpente, che attraversa il romanzo parlando di letteratura e del senso delle cose, l’autoreferenzialità dei giovani protagonisti e la loro sincera ansia di ricerca, i giochi di parole, lo humour usato come esorcismo, il sottile machismo (il rapporto tra Andrés e Stella ricorda quello autoritario e “verticale” tra Oliveira e la Maga), il vagare incessante per la grande città, le situazioni irrisolte che lasciano al lettore spazi vuoti da riempire… Ma L’esame, testo quasi privo di trama e composto in buona parte da dialoghi (“un succedersi di chiacchiere da caffè articolate narrativamente”, scrive il critico spagnolo García Martín), non è solo un seme dal quale nascerà l’albero di Rayuela: è anche un castello di allusioni e metafore che contribuiscono a far luce sui motivi per cui lo scrittore lasciò l’Argentina peronista. Non dimentichiamo che Cortázar, quando elabora questo suo secondo romanzo, ha ormai dato le dimissioni dall’Università di Cuyo, dove insegnava letteratura francese, per non sottostare al controllo peronista sulle attività educative e sulla produzione di cultura; ma soprattutto ha scritto, oltre ad articoli e racconti pubblicati su diverse riviste, un dramma in versi, Los reyes, in cui si fronteggiano Teseo (“il perfetto fascista”) e il Minotauro, che, afferma l’autore nel prologo all’edizione francese, rappresenta “il poeta, la creatura doppia capace di percepire una realtà diversa da quella abituale, e più ricca”, insomma “un mostro” temuto, odiato e perseguitato dai tiranni di ogni epoca.

I giovani intellettuali di L’esame sono e si sentono mostri del genere, assediati da una presenza fantasmatica e minacciosa (Abel, personaggio sempre intravisto e mai raggiunto), persi in una città solo in apparenza riconoscibile, ma in realtà invasa da una nebbia appiccicosa, da un’umidità bollente, dal proliferare di strani funghi le cui spore volano dappertutto, e infine da una folla terrificante e barbara, chiamata all’adorazione inesplicabile di un osso in Plaza de Mayo e guidata dalla voce di un candidato che sbraita slogan insensati, mentre la cultura ufficiale si rinchiude in una Casa dove migliaia di persone “consumano” mondanamente l’ascolto di libri che non leggeranno mai, in una sorta di apoteosi del reading che sembra prefigurare i nostri festival letterari. Questo paesaggio urbano corrotto e inesplicabile è, per Cortázar, l’Argentina di allora, la sua Argentina, governata da un regime che gli ripugna e dalla quale si può solo fuggire, alla lettera o con l’enigmatico colpo di pistola che suggella il romanzo, verso “un’altra riva”.

Come sottolinea lo scrittore e saggista Carlos Gamerro, “Cortázar sta al peronismo come Kafka sta al fascismo: non esplora la sua politica, ma la sua metafisica”. Forse è proprio in questa chiave che, oggi, si può leggere L’esame, certamente imperfetto eppure capace di cogliere l’essenza di una realtà inquietante, con le sue strade infette, le sue folle stregate da un populismo bugiardo e manipolatore, i funzionari della cultura ciechi alla realtà o pronti ad adeguarsi al potere, i protagonisti impotenti, sospesi tra il suicidio e la fuga: sì, è l’Argentina degli anni ’50, eppure tutto questo non ci suona stranamente familiare?

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2013

Da leggere: Mario Vargas Llosa


Mario Vargas Llosa



Due machos anziani

Definitivamente trasformato in un monumento a se stesso dal premio Nobel ricevuto nel 2010, Mario Vargas Llosa ha aperto nell’ottobre del 2013 l’ultimo Congreso Internacional de la Lengua Española, che si è tenuto a Panama: un appuntamento istituzionale e tuttavia attraversato da polemiche a volte aspre sulle sorti di una lingua in continua evoluzione, ricca di varianti nazionali molto diverse per toni, accenti e vocabolario. Oltre a tenere un ovvio discorso di circostanza, lo scrittore peruviano ha presentato nella stessa sede il suo romanzo L’eroe discreto, lanciato da Alfaguara e uscito anche in Italia presso Einaudi, che ha in catalogo l’intera opera di Vargas Llosa. E forse non c’era sede più adatta di un congresso dove el español de América fa la parte del leone, per presentare un testo in cui l’autore abbandona la lingua relativamente neutra degli ultimi anni per tornare a un’abbondanza di peruanismi che Federica Niola, cui si deve la bella e attenta traduzione, ha riunito in un glossario finale.

Al “ritorno” lessicale ne corrisponde un altro, quello a due luoghi chiave della narrativa e della vita di Vargas Llosa, ossia Piura e Lima, due città a lungo abbandonate per compiere una sorta di giro del mondo letterario che parte dalla Repubblica Dominicana di La festa del Caprone e approda all’Africa e all’Amazzonia dell’epico e anticolonialista Il sogno del Celta. A chiudere il cerchio ci sono poi personaggi come il sergente Lituma – già apparso in Il caporale Lituma sulle Ande, Chi ha ucciso Palomino Molero? e il memorabile La casa verde – e come il raffinato ed europeizzante don Rigoberto con la moglie Lucrecia e il figlio Fonchito (protagonisti di Elogio della matrigna e I quaderni di don Rigoberto), che tornano per abitare una storia nuova accanto a nuove figure, in primo luogo quelle dei due “eroi discreti” che danno il titolo al romanzo: Felícito Yanaqué, piccolo ma fortunato imprenditore del ramo trasporti, e il ricchissimo uomo d’affari Ismael Carrera, proprietario di una importante compagnia di assicurazioni.

I due sembrano non avere molto in comune, se non l’età matura e il fatto che entrambi sono grandi lavoratori, uomini all’antica delusi e preoccupati per il comportamento di figli malriusciti; per il resto non potrebbero essere più diversi, visto che Yanaqué è un cholo, ossia un meticcio dai tratti indigeni, e vive a Piura dove è arrivato giovanissimo e si è ritrovato costretto a sposare una ragazzina che forse era incinta di un altro (solo da poco Felícito ha scoperto l’amore con una bellissima ragazza che mantiene con discrezione). Carrera, invece, è un criollo puro che appartiene alle classi alte di Lima, un vedovo solitario e con molti rimpianti. Le loro storie si dipanano in luoghi differenti e indipendentemente l’una dall’altra: Yanaqué è alle prese con quello che sembra un tentativo di estorcergli un sostanzioso “pizzo” che si rifiuterà pubblicamente di pagare, mentre Carrera fronteggerà l’aggressività di due figli incapaci e avidi sposandosi con la sua cameriera e destinandole l’intera eredità. Entrambi, in nome della dignità e dei valori che hanno contraddistinto le loro esistenze, non esitano a mettere in gioco la propria vita di bravi e normalmente “eroici” cittadini, finché le due vicende si incroceranno in un lietissimo finale.

Tra cenerentole che si trasformano in eleganti signore, digressioni erotiche, segreti svelati, agnizioni al contrario, inganni, tentati rapimenti, indagini poliziesche, incendi dolosi, indovine infallibili, il romanzo si imparenta intenzionalmente con la forma più tipica del melodramma latinoamericano, ossia l’infinito feuilleton prima radiofonico (quello cioè che fa da spina dorsale a uno dei più celebri romanzi di Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino) e poi televisivo, come conferma don Rigoberto quando constata che le storie della vita quotidiana sono “più vicine alle telenovele venezuelane, brasiliane, colombiane e messicane che a Cervantes e a Tolstoj, senza dubbio”. Ma dietro la fabulazione affollata di personaggi, dietro i dialoghi brillanti e il ritorno di figure già note e di buona parte dei temi cari allo scrittore (l’erotismo, le virtù civilizzatrici della letteratura e dell’arte, i pregiudizi razziali, il divario sociale, il devastante sensazionalismo dei media), Vargas Llosa nasconde dell’altro.

L’eroe discreto, infatti, va letto anche come un romanzo a tesi impregnato di ottimismo neoliberale sul “nuovo” Perù, dipinto come un paese in ascesa, avviato alla prosperità nonostante mille contraddizioni (la violenza, i sequestri, la corruzione), un po’ più democratico e un po’ meno diseguale di quello raccontato un tempo nel grandioso Conversazione nella cattedrale. A questa possibile lettura, però, se ne sovrappone un’altra ancora, riconducibile all’aspro conflitto generazionale che è in fondo il vero tema del romanzo e che sembra ribaltare l’approccio alla figura paterna caratteristico dell’opera di Vargas Llosa, segnata in profondità dal conflitto che durante l’infanzia e la giovinezza oppose lo scrittore a un padre violento. La situazione, però, qui appare ribaltata: in L’eroe discreto sono i figli a essere detestabili, feroci e addirittura criminali, o vili e sbiaditi, oppure inquietanti e ambigui come il luciferino Fonchito, e su di essi si abbatte la giusta e trionfante vendetta dei padri, fondata su inossidabili valori ma anche su un sostanzioso senso di rivalsa, tanto da indurre lo scrittore e critico argentino Gonzalo Garcés a definire Yanaqué e Carrera “machos anziani: patriarchi invecchiati che mal sopportano di essere rimpiazzati […] Che cosa sono i figli in questo romanzo, se non il Male?”.

Divertente e ironico, capace di avvincere il lettore e di farsi rapidamente leggere (ma non rileggere, soprattutto da chi chiede alla letteratura qualcosa di più che essere abilmente intrattenuto), L’eroe discreto non si può comunque considerare uno dei migliori romanzi di Vargas Llosa – o, almeno, del Vargas Llosa autore di una decina di opere memorabili e impossibili da ignorare –, non raggiunge gli esiti estetici del passato, tralascia ogni ricerca formale, si risolve troppo affrettatamente e ci restituisce personaggi molto amati, come Lituma, in una versione rigida e di maniera, annullando in parte il piacere di ritrovarli. Allo stesso tempo, però, L’eroe discreto è la dimostrazione di come si possa confezionare un romanzo ben scritto e di buon livello, presumibilmente gradito a un gran numero di lettori, affidandosi soprattutto ai trucchi e alle risorse di un notevole mestiere e alla padronanza di una tecnica narrativa consumata, fino a costruire un solido “oggetto d’uso” che funziona con meccanica precisione. Il che, tutto sommato, in tempi di negligente sciatteria non è poco. Non è poco neppure incontrare, in una rapida battuta, un nome che ai lettori italiani (e anche a molti di lingua spagnola) forse non dice nulla, ma che rimanda a una delle figure più insolite e misconosciute dell’avanguardia letteraria latinoamericana: quello del peruviano César Moro, pittore e poeta surrealista di grande valore, outsider oggi ingiustamente dimenticato che scrisse quasi tutta la sua opera in francese e che, ormai anziano, insegnò questa lingua al giovane Mario Vargas Llosa. E che oggi lui lo ricordi attraverso la voce del proprio alter ego don Rigoberto è commovente e allo stesso tempo meraviglioso.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2013

Da leggere: Lina Meruane


Lina Meruane




Lo schermo buio della cecità 

È curioso che nella delegazione cilena invitata al Salone del Libro di Torino del 2013 siano così poco rappresentate le nuove leve, ovvero gli scrittori nati negli ultimi anni della dittatura o dopo la sua fine: eppure è proprio a loro, non ci sono dubbi, che si deve la attuale ed eterogenea vivacità del panorama letterario cileno. Molti non sono ancora noti al pubblico italiano e forse non lo saranno mai, anche se alcuni devono ancora crescere e altri sono da tempo “diventati grandi”, come Carlos Labbé, Alvaro Bisama, Rafael Gumucio, Andrea Jeftanovic, Claudia Apablaza, María José Viera-Gallo; altri ancora sono apparsi o stanno per apparire in italiano, come Alejandro Zambra che, già edito da Neri Pozza (Bonsai, 2007), oggi passa a Mondadori con un bel romanzo di squisita brevità, Modi di tornare a casa, che intreccia sussulti e scosse del terremoto recente a una memoria inizialmente criptica e allusiva, e poi sempre più nitida, degli anni della dittatura, o come Lina Meruane, ormai da molti anni residente a New York dove insegna all’Università, e ora proposta da La Nuova Frontiera nella traduzione di Luca Mariotti.

Sia Zambra che Meruane, insieme a Viera Gallo, costituiscono la sparuta pattuglia degli autori cileni fra i trenta e i quaranta presenti al Salone e parteciperanno a più di un dibattito, compreso quello di domenica pomeriggio sulla necessità di ridefinirsi, che dovrebbe accompagnare chi si trova a “Scrivere dopo Bolaño”. C’è da credere che entrambi avranno molte cose da dire, se non altro perché, mentre alcuni tra i più giovani tendono a naufragare nella “impossibilità di essere Bolaño” o nell’ansia di essere più bolañista di lui, Zambra e Meruane sono fra coloro che si sono sin dall’inizio sottratti alla sua influenza e che hanno trovato una propria voce. La più singolare e riconoscibile è forse quella della Meruane, che dopo aver esordito nel 1998 con un libro di racconti, Las Infantas, appare oggi come una delle migliore autrici di lingua spagnola della sua generazione grazie alla forza e alla originalità del suo quarto e ultimo romanzo, Sangue negli occhi (pag. 149), che nasce da una esperienza reale e assegna al personaggio principale il vero nome dell’autrice, affrettandosi però a dichiararlo falso e a smentire l’elemento autobiografico, e costringendo così il lettore a ricredersi di continuo.

Procedendo dalle frasi interrotte e spezzate delle prime pagine verso un labirinto di immagini così rapide e incisive da risultare quasi brutali, questa narrazione sulla improvvisa cecità di una giovane donna sceglie una chiave più che convincente per avvicinarsi a un argomento che rimanda a infinite mitologie letterarie, qui volutamente ignorate o appena sfiorate; la Meruane opta infatti per raccontarci il buio attraverso la terribile fisicità dei colpi, degli odori, delle voci inflitti al corpo da persone, oggetti ed edifici improvvisamente ostili, collocati in spazi disorientanti e nemici.

Oltre lo schermo nero che oscura la vista, tuttavia, si disegnano nitidissimi le strade di New York, i corridoi dell’ospedale, la desolazione urbana di una Santiago cupa e inquinata, segnata dai proiettili del golpe (tracce del passano che i “vedenti” non scorgono più), l’appartamento dove a un tratto ogni cosa è al posto sbagliato: il mondo continua a esistere e a mutare nella mente della protagonista, l’unico luogo in cui lei possa ancora vedere e in certo senso “scrivere”, e insieme a esso mutano i rapporti, crescono la rabbia e il risentimento, si esaspera il gioco di potere tra sano e ammalato, tra medico e paziente. Il “sangue negli occhi”, che non è solo la manifestazione della malattia, ma anche la metafora terribile della rabbia e del risentimento, si trasforma via via in erotismo divorante, nella voglia di regolare vecchi conti con l’infanzia finalmente perduta e mai davvero decifrata, con l’insufficienza dell’amore materno o con l’inesauribile devozione di un amante, e infine con una vocazione (la scrittura) che si presume spazzata via dalla perdita della vista.

E alla fine di questa storia crudele, essenziale, magistralmente scritta, non si può fare a meno di pensare che mai uno scritto sulla cecità è stato così compiutamente “visivo”, e di chiedersi cos’è che vediamo davvero, cosa significa realmente vedere e se non abbiamo tutti bisogno di un occhio nuovo, dell’occhio “fresco” e vivo, l’occhio di ricambio cui la Lina del romanzo dà avidamente la caccia, come un animale in cerca della preda che la farà sopravvivere.

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2013