martedì 1 aprile 2014

Anniversari e addii: José Emilio Pacheco

José Emilio Pacheco


Non tornerà, eppure non se ne andrà mai

Il quattordici gennaio 2013 se n’è andato il suo amico e vicino di casa Juan Gelman (entrambi vivevano nella Colonia Condesa, a Città del Messico), del quale si definiva “lettore intimo”, e a lui, alla sua ventennale presenza nella capitale messicana, José Emilio Pacheco aveva dedicato la sua ultima rubrica sulla rivista Proceso, una colonna settimanale intitolata Inventario che per anni è stata una sorta di bussola non solo letteraria, ma anche etica e civile per i suoi numerosissimi e fedeli lettori. Terminato nel pomeriggio di venerdì, l’articolo era destinato a uscire il giovedì successivo, come sempre: e invece lo si può leggere già ora sul sito della rivista, in memoria non solo del grande poeta argentino, ma dello stesso Pacheco che, ricoverato sabato dopo un banale incidente domestico, è morto domenica “tranquillo, in pace e sulla breccia come ha sempre desiderato”, secondo le parole di sua figlia Laura Emilia, lasciando al Messico e al mondo una straordinaria opera poetica che ne fa uno degli autori di lingua spagnola più importanti del ‘900.
“Sono nato a metà di un anno orribile, il 1939, e tuttavia non ho affrontato i disastri della guerra. Non ho patito i bombardamenti, le battaglie, le persecuzioni, i campi di sterminio. Ho sperimentato tutto ciò a distanza e non per questo ha cessato d’imprimersi in quello che ho scritto. Ora la violenza e la crudeltà estreme sono il mio pane quotidiano e vivo nel cuore di un conflitto bellico senza speranza di vittoria. A questo si somma la vista esacerbata della fame e della miseria in Messico e nel mondo. A tutto ciò, cui non smetto mai di pensare, aggiungo l’angoscia di quanti restano senza lavoro e dei giovani che non trovano il posto per il quale sono stati preparati. (…) E a volte mi sento affine a Pallada, il poeta di Alessandria che vide crollare il suo mondo e contemplò il trionfo del cristianesimo su quanto era stato per molto tempo greco e romano”.
Così aveva detto nel suo discorso di accettazione del Premio Cervantes ricevuto nel 2009, aggiungendo che la lingua in cui era nato era sempre stata la sua unica ricchezza. Una ricchezza messa a frutto nel migliore dei modi, “investita” com’è in sedici raccolte di versi (tra esse Tarde o temprano, l’antologia del 2009 che riunisce quasi per intero la sua opera; in italiano si può leggere “Gli occhi dei pesci”, una scelta di poesie curata e tradotta da Stefano Bernardinelli per Medusa nel 2006), due romanzi (il più famoso, “Le battaglie nel deserto”, vera pietra miliare della letteratura messicana, è uscito nel 2012 presso La Nuova Frontiera) e sei volumi di splendidi racconti. A tutto questo vanno aggiunti saggi, magistrali traduzioni di autori come Eliot, Schwob, Beckett, e migliaia di articoli composti nel corso di una lunga attività giornalistica che non riguardava solo la letteratura e procedeva in parallelo a una carriera universitaria di grande impegno e prestigio, che dal Messico lo ha portato negli Stati Uniti e in Inghilterra.
Insieme ad altri nomi importanti della cultura messicana, Pacheco faceva parte della cosiddetta Generación de los ‘50, una generazione di rottura che ha vissuto la trasformazione di un Messico arcaico, ancora segnato dalle ferite della guerra cristera scoppiata alla fine degli anni ’20, in una nazione industrializzata a tappe forzate e catapultata in una modernità liberista che dilata e radicalizza ulteriormente le diseguaglianze sociali, la corruzione, l’intreccio profondo tra politica e criminalità. E’ una nazione comunque ribollente di cambiamenti e novità, in cui la classe media si accosta timidamente per la prima volta all’allettante possibilità di nuovi consumi, che vede nascere le opere di un gruppo di scrittori eccezionali e aperti a un rinnovamento linguistico e  tematico, come Juan García Ponce, Jorge Ibargüengoitia, Carlos Fuentes, Juan José Arreola, Rosario Castellanos, Josefina Vicens, Sergio Pitol, Carlos Monsiváis, l’appartato e grandissimo Juan Rulfo e molti altri, ormai in buona parte assurti al rango di classici moderni. Tra loro, José Emiio Pacheco spicca per la sua capacità di interpretare e raccontare il cambiamento: pochi romanzi, infatti, riescono come “Le battaglie nel deserto” a offrire il ritratto di una nazione e di una società in rapido e tumultuosa mutazione, e a farlo attraverso un uso ironico, affettuoso e spericolato della lingua e della cultura popolare, filtrando il tutto attraverso lo sguardo di un ragazzino che si innamora perdutamente di una donna adulta.
L’adolescenza e l’infanzia, intese come stagioni di passaggio e a loro modo dolorose, sono del resto uno degli argomenti preferiti del Pacheco cuentista, autore di racconti che immancabilmente sfiorano la perfezione e che non sono certo inferiori all’opera del Pacheco poeta, ossessionato dallo scorrere del tempo, dalla devastazione che l’uomo infligge alla terra, dalla solitudine e dalla morte, e tuttavia capace, sempre, di un continuo e sottile esercizio di ironia che passa anche attraverso l’uso di una lingua “parlata”, essenziale, asciutta.
Di lui, oggi, la cultura messicana e soprattutto i lettori che lo adoravano (secondo una leggenda urbana pare che non potesse camminare per la strada senza venire continuamente fermato da persone che volevano dirgli quanto i suoi libri  fossero stati importanti per loro) ne ricordano non solo la statura letteraria ma anche la generosità, l’umorismo, la semplicità, l’interesse per la nuova e sorprendente generazione di scrittori che va crescendo in Messico, la fermezza nello spendersi per le cause che riteneva giuste, l’ansia per la terribile condizione attuale del suo paese. “Prima Gelman e poi lui: siamo rimasti orfani di poeti”, si legge in uno dei tanti ricordi comparsi sulla stampa messicana, dove la notizia della morte dello scrittore ha occupato le prime pagine. Ma, parafrasando proprio quanto ha scritto Pacheco sulla scomparsa del poeta argentino, si potrebbe dire che l’autore di “Le battaglie nel deserto” non tornerà, eppure non se ne andrà mai.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel gennaio del 2014