sabato 6 maggio 2023

Da leggere: Laura Ortiz Gómez


Laura Ortiz Gómez




Le voci della foresta 

Colombia tiene escritoras: così si intitolava un manifesto firmato nel 2017 da un buon numero di scrittrici, indignate per l’assenza di nomi femminili tra quelli degli autori invitati dal governo del loro paese a una manifestazione di grande prestigio. Alla protesta seguirono polemiche furibonde e non inutili, visto che la Biblioteca Nacional de Colombia, in collaborazione con alcune case editrici indipendenti, nel 2022 ha dato il via alla Biblioteca de Escritoras Colombianas, che oltre a valorizzare le opere di autrici nate nel corso degli ultimi tre secoli, ha contribuito a definire genealogie utili alla lettura del presente. A conferma del fatto che la letteratura colombiana non è «un club per soli uomini», dopo i recenti La cagna di Pilar Quintana (La nave di Teseo, 2022) e Assedio animale di Valeria Londoño (Alessandro Polidoro, 2022), ci viene ora proposto da gran vía Creature della foresta (pp. 128, e. 13,50; l’ottima traduttrice è Monica Besana), di Laura Ortiz Gómez, nata a Bogotà nel 1986, che con questo suo libro d’esordio si è guadagnata il Premio Nazionale di narrativa Elisa Mujica, importante e meritatissimo.

Oggi l’autrice risiede a Buenos Aires (un espatrio che, dice, le ha consentito di scrivere del suo paese da una giusta distanza), ma per anni ha viaggiato nelle più remote zone della Colombia su incarico della Red Nacional de Bibliotecas, per diffondere la lettura nelle comunità contadine ma anche per avvicinarsi alla ricchezza di una vera e propria letteratura orale, custodita e tramandata da anziani e donne. Ed è questo prezioso flusso narrativo (ascoltato con l’attenzione di chi vuole assorbire, oltre a storie e figure, le tante peculiarità del linguaggio) che vediamo riaffiorare nei suoi racconti, ambientati tra villaggi, foreste, campi, cimiteri «non ufficiali» in cui riposano morti sconosciuti, trascinati a valle dai fiumi.

Ogni storia è un breve ritratto della Colombia rurale, devastata dal narcotraffico, da un conflitto armato mai davvero concluso e da memorie oscure come quella del massacro di Ciénaga, che nel 1928 mise fine allo sciopero contro la United Fruit e venne poi evocato da García Márquez in Cent’anni di solitudine e da Álvaro Cepeda Samudio in La casa grande. E anche Ortiz Gómez sembra alludere a questo ineludibile episodio in Aíta, la morte, il primo di otto racconti imperniati su famiglie in lutto, corpi violati e torturati, desaparecidos, povertà e soprusi, temi costantemente presenti nella letteratura colombiana e confluiti in passato nel cosiddetto «romanzo della violenza». Una violenza che si è insediata anche nelle opere degli autori più giovani e che rischia a volte di diventare una risorsa narrativa a effetto, fin troppo facile e abusata.

Laura Ortiz Gómez, però, sceglie di non esibirla in tutta la sua crudezza, di indagare piuttosto sulle tracce che lascia e di filtrarle abilmente attraverso simboli e metafore. I racconti si fondano su allusioni e sensazioni, dettagli quotidiani e fatti minimi, narrati con uno squisito variare di ritmi e toni, quasi fossero scritti per una lettura ad alta voce: in Tigre americano: Panthera Onca, per esempio, l’occupazione militare si incrocia con la vergogna di una ragazzina che bagna il letto ogni notte e con le astuzie di una comunità decisa a non arrendersi. In L’ultimo Pibe Valderrama, la disgregazione familiare si fonde con uno strepitoso resoconto di Colombia-Inghilterra durante i mondiali del ’98; l’esistenza sbandata di un orfano cui viene richiesto un campione di DNA per identificare le ossa della madre, giustiziata dai paramilitari, è invece illuminata dalla nascita di un vitellino in Parto di mucca.

Sono storie devote alla terra e alla cultura contadine, poetiche e insieme politiche, che non omettono l’orrore, ma gli affiancano la ricerca di risposte, l’ostinazione a sopravvivere, i tentativi di cambiare il proprio destino, il rifiuto del ruolo di vittima. Tenacia, umorismo (a volte nerissimo), rabbia, ironia, ansia di libertà, sono le caratteristiche di personaggi in movimento, oppressi ed estenuati (non a caso il titolo originale è Sofoco, che indica la mancanza d’aria o il dispiacere, ma anche una sensazione di calore, una vampata), eppure desideranti e sensuali.

Voci emarginate e dimenticate, ma piene di slancio vitale, emergono in ciascun racconto, sfuggendo felicemente alla trappola del colore locale e dell’esotismo come a quella ormai logora del realismo magico, e disegnano una sorta di viaggio attraverso una natura indomabile e varia (cordigliere, giungle, coste, fiumi), popolata da significative presenze animali e accompagnata da una costante colonna sonora di fruscii, acque, vento, cui si aggiungono i canti minacciosi dei soldati in marcia, i ritmi locali, le canzoni di protesta che il padre dell’autrice le faceva ascoltare da bambina. E musicali sono anche le frasi brevi, sonore e immaginose che trasformano l’oralità in letteratura e generano immagini intense e suggestive. Sì, Colombia tiene escritoras, e Laura Ortiz Gómez è indubbiamente una di loro.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2023

Da leggere: Cristina Rivera Garza


Cristina Rivera Garza




Viviana e la sua breve estate

Alla vigilia dell’otto marzo 2021, intorno al Palacio Nacional di Città del Messico venne eretto una sorta di recinto metallico alto più di tre metri, simbolo tangibile del difficilissimo rapporto tra i movimenti femministi e il Presidente Andrés Manuel López Obrador, che parlò di un «muro della pace» destinato a prevenire gli eccessi di «donne violente» e strumentalizzate dalla destra. La presunta violenza (ovvero un immenso corteo, molte scritte sui muri, un diluvio di slogan e qualche scaramuccia tra la polizia e le incappucciate del Bloque Negro) era in realtà la legittima esasperazione di chi vive in un paese dove ogni giorno vengono assassinate dieci donne – nel 2020 le vittime furono 3.752 –, e dove il tasso di impunità per chi le stupra e le massacra resta impressionante.

Qualunque cosa ne dica il Presidente, però, le messicane non hanno intenzione di stare zitte, ed è anche il clamore delle loro voci ad aver incoraggiato Cristina Rivera Garza (autrice ormai famosa e accademica di vaglia nata a Matamoros nel 1964) a intraprendere un’impresa rimandata per trent’anni: scrivere della vita e della morte di sua sorella Liliana, ventenne studentessa di architettura uccisa nel 1990 dall’ex fidanzato Ángel González Ramos. Una coincidenza casuale ma significativa ha voluto che la pubblicazione del libro avvenisse proprio nell’aprile del 2021, a pochissima distanza dalla costruzione del «muro», e sempre in aprile, ma due anni dopo, arriva nelle nostre librerie (L’invincibile estate di Liliana, Sur, pp. 324 e. 19), tradotto con grande bravura da Giulia Zavagna e illuminato da una bella copertina che si adegua al titolo tratto da una frase di Albert Camus, annotata dalla ragazza uccisa e scelta come epigrafe dalla sorella Cristina: «Nel cuore dell’inverno imparai finalmente che in me c’era un’invincibile estate».

L’incubazione del testo è stata così lunga, ha spiegato Rivera Garza in più di una intervista, non solo per la difficoltà di elaborare un simile lutto, ma anche per l’assenza di un linguaggio adeguato: per troppo tempo il «senso comune» e la sostanziale tolleranza di polizia e tribunali hanno rivittimizzato le donne, mentre una definizione come «delitto passionale» contribuiva a sfumare la responsabilità del colpevole e perfino ad aggiungere un tocco romantico. Sono state la mobilitazione e la voce delle donne, sottolinea Rivera Garza, a spingere verso il cambiamento e a consentire al linguaggio di articolare il dolore ed enunciare/denunciare le dimensioni della tragedia.

L’intero percorso di scrittura e di riflessione dispiegato in un’opera assai ricca, composta da romanzi, racconti, poesia e saggi, sembra culminare nella tensione fra contenuto e forma che, in L’invincibile estate di Liliana, scaturisce dalle proposte estetiche e teoriche di un’autrice mai stanca di sperimentare. A partire da Nessuno mi vedrà piangere (Voland 2008), definito da Carlos Fuentes «una rivelazione, un romanzo tra i più belli e dirompenti mai scritti in Messico», Rivera Garza ha prodotto testi sempre diversi ma legati da una ricerca costante e audace, approdata negli ultimi anni a quello che si potrebbe definire un progetto di co-scrittura fondato sulla rinuncia a una figura autoriale unica, da lei teorizzato in Los muertos indóciles. Necroescrituras y desapropiación (Tusquets, 2013).

«Scriviamo sempre in compagnia. (...). Tutto è stato già detto in precedenza, se posso pensarlo è perché qualcun’ altro lo ha pensato. Per questo devo fare una mappa di quel che è stato detto, di chi e perché lo ha detto. La mia grande sfida è come mettere insieme materiali e idee, trovare gli accostamenti che mi permetteranno di formulare conclusioni complesse»» sostiene l’autrice a proposito di una decisa «svolta documentale», inagurata con Dolerse. Textos desde un pais herido (2011), e proseguita con Autobiografía del algodón (2020), che collega la storia della sua famiglia di lavoratori agricoli migranti a quella economica della frontiera tra Messico e USA. Testi dall’evidente carattere ibrido, nati dal continuo movimento fra materiali e generi diversi: documenti, autobiografia, testimonianze, crónica, reportage, teoria letteraria, finzione, diario.

Un procedimento che si realizza compiutamente in L’invincibile estate di Liliana, dove i capitoli iniziali ci mostrano l’ infruttuosa ricerca del fascicolo giudiziario sul delitto (rimasto impunito, perché Ángel González scomparve e non venne mai arrestato né giudicato), perso nei labirinti della macchina statale e inseguito di ufficio in ufficio da una Rivera Garza che nel raccontare minuziosamente i suoi spostamenti disegna una piantina tridimensionale di Città del Messico, fatta di strade, edifici, presenze, esterni e interni, in cui sono questi ultimi a risultare più inquietanti e minacciosi. E se il fascicolo non si trova, sarà l’autrice (storica di formazione e abituata alla ricerca dall’attività accademica) a crearne uno, conducendo una minuziosa indagine che muove dall’affetto, dal desiderio di giustizia e da un ritrovamento eccezionale: le carte di Liliana, conservate dai genitori in alcune scatole mai aperte.

È così che Rivera Garza scopre un vero e proprio archivio, composto dalla sorella minore che negli anni della sua breve vita aveva conservato lettere, appunti, quaderni, cartoline, fotografie, biglietti, diari, scarabocchi, liste di canzoni, pagine scritte e piegate come origami, decorate a colori vivaci, o con polverine luccicanti e fiori secchi, di cui ci vengono offerti i contenuti e descritta la materialità, la calligrafia, il tipo e la consistenza della carta.

Nel libro, Liliana si racconta con la propria voce e alla sua narrazione si aggiunge quella degli amici rintracciati a uno a uno, che si fanno avanti con i loro nomi e ricordi, fedelmente riportati. Seguono gli articoli che all’epoca parlarono del delitto, e, alla fine, la parola passa ai genitori e alla loro memoria: un’autentica polifonia magnificamente orchestrata per dar forma a una struttura che, pur affondando le radici nella realtà, ricorre a volte all’’immaginazione, indispensabile per riempire vuoti, per interpretare passaggi fondati solo su parole altrui, per dare corpo a supposizioni e ipotesi. L’indagine, i documenti, non esitano dunque a costeggiare il racconto, non solo per ritrarre e celebrare una sorella amata e perduta, ma per rappresentare una realtà collettiva, per poterla «dire» in un altro modo, per condividere degnamente il lutto, ma anche per indirizzarlo verso la protesta e l’azione, conferendo al libro una spiccata qualità politica.

Dell’assassino, di quell’Ángel González Ramos del quale troviamo una sbiadita fotografia nelle ultime pagine, poco viene detto, anche se gli scritti di Liliana rivelano che ne è stata innamorata, danno conto delle tappe di un rapporto tossico e la mostrano infine consapevole della necessità di dire basta. Quella di Ángel resta però una figura sfocata, tanto che, durante la consegna all’autrice del premio Villaurrutia 2022, un noto intellettuale messicano ha fatto presente la sua delusione di lettore nel veder trascurati «i motivi, il modo di agire, le giustificazioni» del colpevole, personaggio intrigante che meriterebbe di essere osservato a dovere e in profondità, come hanno fatto Borges, Sabato e Valadés in alcune celebri opere. Mettendo da parte il suo discorso di accettazione, Rivera Garza ha risposto che lo sguardo e l’attenzione dovrebbero essere rivolti alle vittime, non a quelli che le hanno uccise, di cui si è parlato e si parla fin troppo: «A me importava che la protagonista fosse Liliana, che la sua vita fosse la protagonista del libro, non volevo che il suo assassino le rubasse spazio, se non per segnarlo a dito, per dire che c’è un femminicida impunito e in libertà».

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile 2023

Da leggere: Sara Gallardo

 


Sara Gallardo



I levrieri di Julián 

Non sono in molti, neppure nell’Argentina dove furono popolarissime, a ricordare Beatriz Guido, Silvina Bullrich e Marta Lynch, scrittrici che a metà del secolo scorso vennero chiamate las bestselleristas per l’eccezionale successo dei loro romanzi. La biografa Cristina Mucci le definisce “le dimenticate” (Las Olvidadas, Sudamericana 2022), e Leopoldo Brizuela sottolinea che il tempo non solo le ha cancellate, ma ha finito per premiare un altro terzetto letterario attivo negli stessi anni, quasi segreto e composto da Silvina Ocampo, Elvira Orphée e Sara Gallardo, autrici così singolari da risultare provocatorie e allora situate ai margini dello scenario culturale argentino. Orphée è l’unica, tra loro, ad attendere ancora una piena rivalutazione, mentre il riscatto di Ocampo è così largamente consolidato da averne fatto un indiscutibile punto di riferimento; quanto a Gallardo (scomparsa nel 1988, a cinquantasette anni), il recupero della sua opera è davvero iniziato solo 2004, con l’edizione della Narrativa breve completa curata proprio da Brizuela, che insieme a Ricardo Piglia ha attirato l’attenzione su una scrittura imprevedibile ed elegante, travasata in romanzi o in racconti brevi e affiancata da una vasta e brillante produzione giornalistica.

Sara Gallardo Drago Mitre (nata a Buenos Aires nel 1931 in una delle più illustri famiglie argentine e scomparsa prematuramente nel 1988) era finora nota ai lettori italiani solo grazie a Gennaio, romanzo d’esordio pubblicato da Solferino nel 2021 e apparso in lingua originale nel 1958, che con la sua ambientazione rurale sembrava rifarsi a un immaginario ormai considerato residuale e scartato dal sistema letterario. Nello stesso momento in cui Guido, Bullrich e Lynch si insediavano in un collaudato “canone femminile” fatto di sensibilità e intimismo, e mentre in Argentina si affacciavano le sperimentazioni di un’audace avanguardia o divampavano polemiche sul ruolo politico e sociale della letteratura, Gallardo tornava quindi a una tradizione narrativa ormai archiviata, e se ne serviva spavaldamente per comporre una sorta di trilogia.

A Gennaio, infatti, seguirono nel 1963 Pantalones azules e nel 1968 Los galgos, los galgos, che mettono in scena gli abitanti e i paesaggi delle grandi proprietà terriere, disarticolando però gli stereotipi e le convenzioni di un genere da sempre percepito come maschile e sovvertendolo per mezzo della parodia, dell’iperbole, di vistose deviazioni dalla via tracciata in passato da scrittori come Eugenio Cambaceres, Benito Lynch, Enrique Larreta o Ricardo Güiraldes, autore di quel Don Segundo Sombra che, pubblicato nel 1926, racconta un duro e trionfale apprendistato da proprietario terriero: una storia traboccante di colore locale che Gallardo capovolge simmetricamente nel suo terzo romanzo, come per mettere a nudo, reinterpretare e forse disintegrare le fondamenta della letteratura argentina.

Los galgos, los galgos, tradotto benissimo da Sara Papini, ci viene ora presentato da gran vía (I levrieri, i levrieri, pp. 504, e. 20), rispettandone il titolo, che testimonia il gusto dell’autrice per l’iterazione e per la presenza di animali veri o fantastici: un bestiario singolarmente autentico (tori mostruosi, greggi simili a un’onda lenta, lepri, formiche rosse, pipistrelli, cavalli) popola il romanzo, evocato con attenzione quasi amorosa e dotato di un’accentuata valenza lirica e simbolica. Il posto d’onore spetta ovviamente alla coppia di levrieri Corsario e Chispa che Julián, avvocato senza ambizioni, porta con sé nella tenuta ereditata dal padre, dove spera di trasformarsi in un autentico estanciero e trovare così un senso e uno scopo; da elegante accessorio del suo nuovo status, i cani si trasformano presto in compagni indispensabili e in una versione più stabile e felice della coppia formata da Julián e dalla pittrice Lisa, il cui abbandono coincide con il fallimento dell’impresa: lo spazio rurale si è rivelato un enigma di cui Julián non riesce a decifrare i codici e le regole, affrontati a partire da moventi puramente estetici o da nozioni libresche.

Finalmente consapevole della propria estraneità a un mondo cui dovrebbe appartenere per «diritto di nascita», il protagonista parte per Parigi, dove, più indolente che mai e più che mai pieno di rimpianti per l’amore perduto, finirà per attirarsi una falsa accusa di pedofilia e per decidersi al ritorno, ma solo per scoprire che Lisa è definitivamente perduta: ad attenderlo non c’è che la sopravvissuta Chispa, l’ultimo levriero destinato a morire di lì a poco, come Argo ai piedi di un desolato Odisseo.

Suddiviso in quattro parti che rappresentano altrettante tappe del percorso di Julián (l’ultima lo vedrà scivolare nel matrimonio con una donna che gli è indifferente, ma che ne sopporta con pazienza i capricci e la depressione), il romanzo ha quindi un andamento circolare e rimanda il suo eroe al punto di partenza, abbandonandolo con un breve e spiazzante brano in terza persona che proietta l’autrice verso nuove scommesse formali, condensate tre anni dopo nel suo capolavoro, lo stupefacente Eisejuaz. Attraverso il flusso sincopato dei dialoghi, la progressiva trasfigurazione del quotidiano, la spirale di descrizioni mai inutili e sempre funzionali al procedere del racconto, il romanzo annuncia nitidamente una svolta che allontana l’autrice dall’iniziale naturalismo, spingendola verso una riflessione profonda su temi quali l’identità latinoamericana, la tensione verso l’alterità, la necessità di scrivere oltre e contro i confini della propria classe sociale. Vicino alla perfezione e frutto di una raggiunta maturità, I levrieri, i levrieri si offre come un presentimento dell’imminente inoltrarsi di Gallardo in territori narrativi inesplorati e privi di filiazioni visibili.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile del 2023

sabato 15 aprile 2023

Da leggere: Armonia Somers

 


Armonia Somers




Una misteriosa Armonia 

Strano, bizzarro, insolito, singolare: così, o con altri sinonimi capaci di esprimere differenza e alterità, si potrebbe tradurre l’aggettivo spagnolo raro. In letteratura, però, il termine si è trasformato in sostantivo a partire da Los raros, testo del 1886 in cui Rubén Darío ritrae poeti e scrittori inclassificabili e «diversi», creando una categoria che alla luce del presente va senz’altro ripensata. Buona parte dei nomi indicati da Darío, infatti, col tempo si sono trasformati in altrettanti classici, e lo stesso si può dire di alcuni degli autori novecenteschi individuati a metà del secolo scorso da un celebre critico ed editore uruguayano, Ángel Rama.

Nel prologare Aquí. Cien años de raros, fondamentale antologia da lui compilata nel 1966 per la Editorial Arca, Rama sottolineava come la letteratura del suo paese, aderente alle convenzioni del realismo, fosse attraversata da una segreta linea «immaginativa», la cui prima radice sarebbe da rintracciare nell’influente presenza del franco-uruguayano Isidore Ducasse, meglio noto come Conte di Lautréamont. Animati da «legittima diffidenza» verso la tradizione, scrittori quali Juan Carlos Onetti o Felisberto Hernández avevano imboccato la strada di un’audace complessità fondata su «ingredienti insoliti», diventando estranei a un canone che lentamente li ha riassorbiti, anche se non tutti e non del tutto, perché se Onetti è da tempo insediato nel «centro», altri si trovano ancora in una sorta di limbo marginale, non più ostracizzati, ma confinati nell’appartato territorio dei cosiddetti «segreti meglio custoditi».

Tra loro, fino a qualche anno fa, c’era anche Armonia Somers, il cui primo romanzo venne accolto nel 1950 da innumerevoli polemiche a causa dell’allegorica ma esplicita messa in scena del desiderio femminile, e per la presenza, inoltre, di uno pseudonimo che suscitò infinite ipotesi, nessuna delle quali contemplava la possibilità che La mujer desnuda, un testo «ermetico, osceno, macabro, feroce», fosse opera di una donna. Solo molti anni dopo, quando Somers aveva ormai pubblicato romanzi e racconti ancora più «oltraggiosi» per forma e contenuto, l’identità dell’autrice fu svelata: il suo vero nome era Armonia Etchepare Locino, nata nel 1914 a Pando in una famiglia povera ma non incolta (il padre era un sarto anarchico, la madre aveva aspirazioni letterarie), e trapiantata da adolescente a Montevideo.

Dapprima semplice maestra rurale, Armonia era diventata una pedagogista assai nota, autrice di importanti saggi sulla devianza giovanile: una figura istituzionale e rassicurante, dunque, provvista però di un inquietante «doppio» letterario; solo grazie all’ energica rivalutazione compiuta da Rama cominciò a essere apprezzata e a diventare oggetto di analisi entusiaste ma discordanti, che l’hanno di volta in volta collegata al surrealismo, all’espressionismo, al gotico, al femminismo più radicale, al perturbante freudiano o alle correnti postmoderne. Frustrato ogni azzardo tassonomico, la critica sembra d’accordo nell’attribuirle almeno un’etichetta, quella di «inclassificabile» dalla scrittura onirica e crudele, che non arretra davanti all’eccesso, sa stabilire analogie insolite, sovverte tempo e spazio, utilizza tecniche narrative che vanno dal flusso di coscienza al frammento, azzarda spericolate costruzioni sintattiche, elabora un linguaggio brillante e denso di metafore, allegorie, simboli, riflessioni filosofiche, centrando pienamente, secondo Elio Gandolfo, l’obiettivo di «raccontare una storia come non era mai stata raccontata in precedenza».

Quasi leggendaria ma ancora sfuggente e misteriosa, a settantatré anni dal suo esordio e a quasi venti dalla morte, Somers arriva ora ai lettori italiani per la prima volta con La donna nuda (pp. 140, e. 14), grazie alla nuovissima casa editrice Ventanas, fondata da Laura Putti, che si è intrepidamente misurata con la non facile traduzione di un testo rimaneggiato nel 1967, quando l’autrice volle rivedere in profondità un romanzo germinale, annuncio delle sue opere future (culminanti nello sfolgorante Sólo los elefantes encuentran mandrágoras, spesso paragonato al Paradiso di José Lezama Lima), in dialogo involontario ma percettibile con la pittura di Leonora Carrington e Remedios Varo, amabili streghe surrealiste, e soprattutto con scritture femminili differenti dalla sua ma altrettanto anticipatrici e disposte a osare, come quelle di Silvina Ocampo, Maria Luisa Bombal, Marosa di Giorgio o Clarice Lispector.

L’ avventura di Rebeca Linke, che nel giorno del suo trentesimo compleanno raggiunge una casa di campagna dove decapita se stessa con uno stiletto, per poi rimettersi la testa sul collo «con un colpo deciso, come un casco da combattimento» e inoltrarsi in un bosco simile a un cetaceo spiaggiato, è affidata a un narratore reticente che non offre spiegazioni e adotta il punto di vista dei personaggi, si tratti della protagonista o degli abitanti di un paesetto placidamente patriarcale, sconvolti dalla sua apparizione. Dopo il gesto cruento che ne segna la rinascita, Rebeca indossa nomi nuovi (Eva, Giuditta, Semiramide, Maddalena, Friné, Gradiva…) e, noncurante del violento desiderio collettivo scatenato dalla sua nudità, intraprende un percorso utopico e brevissimo sotto il segno dell’erotismo e dell’innocenza primigenia, alla ricerca di una libertà destinata a soccombere tra fuoco e acqua, mentre il fiume la sottrae alla furia maschile. Un fallimento, il suo, che testimonia comunque la necessità di spezzare la disciplina imposta dall’ordine borghese, dalla religione, dal contratto sociale e sessuale che assegna all’uomo la proprietà e l’uso del corpo femminile.

Costruita con immagini fulminee ed effetti quasi pittorici, prodiga di rimandi intertestuali (tra i tanti, la Genesi, il mito, gli echi di Poe, Lautreamont e César Vallejo, fino al Frankenstein di Mary Shelley), la trama prescinde da un approccio lineare e letterale, nascondendo i propri segreti, indica l’autrice in una delle sue rare interviste, «come i piccoli e pericolosi ragni che vivono dietro i quadri», pronti a saltare e a inoculare perplessità, dubbio, straniamento, ma anche un sorprendente piacere estetico.

Se esiste il mestiere di scrivere, dice Somers, esiste anche quello di leggere, e conclude: «Credo di aver pensato che i lettori dovrebbero, per una volta, ascendere verso l’autore, anche a costo di una qualche sofferenza. Forse ho ammannito una pietanza troppo complicata, che non sono riusciti a digerire. Ma non me ne pento, non mi dispiace. La digerisca chi può». E chi non può, si potrebbe aggiungere, si lasci tranquillamente divorare da un testo di solida e magnifica eccentricità, e accetti di perdersi, di correre dei rischi, di inoltrarsi in un labirinto di possibilità interpretative.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nell’aprile del 2023

mercoledì 5 aprile 2023

Anniversari e addii: María Kodama

 


María Kodama




Al servizio del Genio (e viceversa)


«Io ero al servizio del talento letterario di un uomo, l’ho servito con obbedienza, ho servito una mente maschile, dunque per molti maschi sono la ragazza dei sogni, sono anche la loro potenziale vedova. Sono stata la segretaria di Levin, la sua archivista, moglie, redattrice, agente… Non mi sono risposata, ho continuato a servirlo dopo la sua morte e lo servirò fino alla mia morte. Lui, inoltre, mi ha lasciato un capitale simbolico, che io con una gestione attenta, ho accresciuto». Così, nello splendido ultimo libro di Dubravka Ugresic pubblicato da La nave di Teseo (La volpe, 2022), parla la protagonista di L’arte dell’equilibrio, incrocio tra racconto, cronaca e saggio sull’incontro dell’autrice con la Vedova di un anziano scrittore.

Parole simili potrebbe averle dette qualsiasi Vedova illustre – la maiuscola è d’obbligo –, dall’immaginaria Mrs.Driffield di Lo scheletro nell’armadio di Somerset Maugham, fino a quelle realmente esistite ed esistenti, eredi non solo dei diritti, ma del ruolo di curatrici postume: vestali, dunque, e a volte martiri volontarie, ma anche menadi, «creature temibili, onnipresenti e disposte a fare a pezzi chiunque osi toccare il legato del defunto», secondo la definizione di Marcos Eymar (e qui va notato che ai Vedovi, compresi i più discutibili, viene di solito riservata minore e più indulgente attenzione).

Anche María Kodama, scomparsa il 26 marzo a ottantasei anni nella sua casa di Buenos Aires, ha pronunciato frasi del genere nelle innumerevoli interviste e apparizioni pubbliche che la vedevano volare da un continente all’altro per parlare di Jorge Luis Borges, incontrato sulla soglia di una libreria (così dice la leggenda), quando lei aveva sedici anni e lui cinquantaquattro, e da allora mai più abbandonato, fino alla morte avvenuta nel 1986 a Ginevra, dove lo scrittore è sepolto sotto una scritta in inglese antico corredata da immagini guerriere, in stridente contrasto con la spoglia lapide della sua “vicina” Griselidis Real, su cui si legge:«Ecrivaine, peintre, prostituée».

Borges l’aveva sposata in Paraguay cinquanta giorni prima di morire (quando, tra l’altro, in Argentina il suo primo matrimonio con Elsa Astete era ancora valido), ma Kodama era da tempo la sua compagna e insieme avevano viaggiato per il mondo, raccogliendo gli omaggi dovuti a una fama straordinaria quanto tardiva, destinata inevitabilmente a riverberarsi su quella misteriosa ragazza dall’aria esotica, figlia di un chimico giapponese e di un’argentina di origine svizzero-tedesca, nonché la prima tra le molte donne amate dallo scrittore (perennemente enamoradizo, ma inorridito dal sesso e controllato da una madre tiranna) a non respingerlo e a offrirgli un amore in cui il corpo non aveva importanza né peso.

Non ci sono dubbi sulla passione quasi religiosa di Kodama per il Genio, e ancor più sulla sua inflessibilità di guardiana dell’opera, eppure la polemica ha sempre accompagnato, non troppo in sordina, una vedovanza aggressiva, prodiga di cause giudiziarie che sfociavano in sequestri di libri e richieste di risarcimento (quando reclamò parte del compenso dovuto al poeta Osvaldo Ferrari per il suo libro Diálogos con Borges, un tribunale francese deliberò a suo sfavore, affermando che «l’universo dei diritti di María Kodama ha i suoi limiti e non è in perpetua espansione») e accusata non solo di protagonismo sfrenato, ma anche di uno sfruttamento più che disinvolto dei testi borgesiani.

Convinta di essere la voce di Borges e la sua unica interprete autorizzata, negli anni la Vedova ha consegnato agli editori una sorprendente quantità di inediti, compresi quelli scartati e rinnegati dall’autore, o i rimasugli sepolti in fondo a un cassetto, e non ha esitato a intervenire in modo spregiudicato su testi esistenti, sopprimendo dediche o eliminando poesie scritte per antichi amori: è stata, insomma, una albacea ossessionata tanto dal controllo e dal possesso, quanto dalla propria visibilità. Non per niente le Nouvel Observateur arrivò a sostenere che la Vedova tenesse in ostaggio l’opera di Borges, e in molti hanno insinuato (o affermato con certezza, come fece Norah Borges de Torre, incantevole pittrice e sorella del defunto) che Kodama aveva allontanato dagli amici e dalla famiglia il vecchio scrittore, imponendogli un trasferimento in Europa quando era quasi moribondo e facendosi nominare erede universale, in contrasto con un testamento che inizialmente prevedeva lasciti anche per i familiari.

Pronta a lamentarsi per «l’invidia» suscitata dal suo ruolo, Kodama non esitava a insultare vigorosamente «i mostri», ossia coloro che, in passato, Borges aveva accolto tra i suoi affetti: la fidata governante Fanny era una ladra, María Esther Vázquez – a lungo e invano amata dallo scrittore – una bugiarda odiosa, e Adolfo Bioy Casares, legato a Borges da oltre cinquant’anni di amicizia, «un Salieri, un codardo, un rifiuto umano» (l’intervista al quotidiano La Nación che conteneva queste dichiarazioni suscitò l’indignazione e la disapprovazione pubblica degli scrittori argentini). Se per alcuni era una bruja, una strega, altri, come Vargas Llosa o Jean-Pierre Bernés – curatore dell’opera omnia di Borges per Gallimard, detestato da Kodama perché non voleva cederle le registrazioni dei colloqui con lo scrittore – ne hanno lodato la devozione e le cure.

Che sia amata o detestata, corteggiata o disprezzata, Kodama, divenuta negli anni una sorta di riconoscibile icona pop, resta una figura controversa, e molti sono gli interrogativi posti dalla sua morte, anche se a vegliare sull’opera di Borges c’è un agente duro e abile come Andrew Wylie. Non sappiamo quale sarà l’epitaffio di María, ma a scriverne uno ha involontariamente provveduto il critico spagnolo Jorge Carrión, in un articolo del 2016 per il New York Times: «È un errore pensare che la gestione delle eredità letterarie da parte delle vedove non sia letteratura», tanto che in un lontano futuro Kodama, «appropriazionista» quanto e più del suo glorioso marito, verrà forse ricordata dai critici come «un’artista punk, una stratega concettuale che si vendicò dell’eteropatriarcato, del canone maschile, della stupida fede della nostra epoca nell’autorialità».

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel marzo del 2023

lunedì 13 marzo 2023

Da leggere: Amparo Davila


Amparo Davila


 


Il corpo oscuro delle storie 

Una donna misteriosa, di cui si sa soltanto quel pochissimo che diceva di sé: un’infanzia borghese ricca di fantasie e di letture, trascorsa in uno spettrale paesetto; il matrimonio fallito con un famoso pittore; il lavoro come segretaria di un intellettuale celebre, Alfonso Reyes; gli anni dedicati alla maternità e a impieghi di scarso lustro… Una vita lunghissima e appartata, quella di Amparo Davila (nata a Pinos nel 1928 e scomparsa nel 2020), connotata dal silenzio e dall’esercizio di una scrittura che la rende quasi unica nel panorama letterario del suo paese, anche se qualcosa la accomuna ad altre scrittrici messicane nate nella prima metà del ventesimo secolo: pur differentissime tra loro, non sono poche quelle che, come Davila, ci hanno lasciato un’opera di grande valore, ma sono uscite in fretta dall’orizzonte editoriale.

A riscattarle e a dar loro un’ampia visibilità è stata una nuova e approfondita rilettura critica, che oltre a indicarle all’attenzione del pubblico contemporaneo le ha rese un punto di riferimento per altre e più recenti scritture: nel caso di Davila, per esempio, il fascino che esercita sulle autrici messicane di oggi si manifesta attraverso reinvenzioni (Veronica Gerber ha rielaborato uno dei suoi racconti più famosi) o presenze fantasmatiche (Isabella Blum l’ha inserita come personaggio in un suo romanzo, e lo stesso ha fatto Cristina Rivera Garza), che recuperano e citano temi e figure caratteristici dei suoi testi.

A partire del 2009, quando il Fondo de Cultura Economica ha raccolto tutta la sua narrativa in Cuentos reunidos, i racconti di Davila hanno avuto più edizioni e sono stati tradotti in molti paesi, compresa l’Italia, dove Safarà pubblica a giorni Morte nel bosco (pp. 271, e. 19,50), tradotto come il precedente L’ospite (2020) da Giulia Zavagna, che ha affrontato brillantemente il compito di restituire in italiano, senza tradirlo né banalizzarlo, uno stile fondato su atmosfere e immagini singolari.

I trentasette racconti dei due volumi costituiscono l’intera opera in prosa di Davila (autrice anche di alcune raccolte di poesie), scritta nell’arco di cinquant’anni: pochi titoli che però sono bastati per creare attorno all’autrice un alone di leggenda e per metterla al centro di analisi numerose quanto discordanti. C’è chi la paragona sbrigativamente a Shirley Jackson, chi la collega a Borges e a Kafka, e quasi tutti segnalano la sua appartenenza al territorio del fantastico o del «gotico femminile», né manca chi parla di un’evidente parentela col surrealismo, mentre si fa avanti un’interpretazione che lega le sue protagoniste – siano mogli stanche o donne solitarie, prigioniere di matrimoni soffocanti e amori da poco – alla sotterranea rivolta contro ruoli e norme che pretendono di modellarne i corpi e le esistenze.

Davila, però, sembra sfuggire a ogni tentativo di trafiggere con uno spillo il corpo oscuro delle sue storie, quasi fossero insetti inquietanti o mostruosi; un dettaglio, una svolta spiazzante finiscono sempre per sottrarla a classificazioni ed etichette, vanificando la collocazione in un genere preciso. Quel che il lettore non potrà fare a meno di notare è l’estrema coerenza dell’autrice, che ricorre invariabilmente ad ambientazioni modeste e riconoscibili (interni domestici, uffici, giardini ben recitati) e disegna una normalità fatta di eventi minimi per poi insinuarvi un elemento inspiegabile e destabilizzante, così da introdurre a poco a poco il disagio, la paura, lo scivolamento verso la follia o la morte.

Estranei inafferrabili invadono tranquille abitazioni piccolo borghesi, si impadroniscono delle stanze, lanciano richiami dagli specchi, impediscono il sonno, affiorano negli sguardi di una ragazza timida rivelandone la nascosta ferocia, o costringono una madre di famiglia a scoprire che il suo austero marito si è trasformato in un nuovo, piagnucoloso figlio bambino. Ma il terrore, l’urlo finale, l’annichilimento, non sono necessariamente di origine paranormale e ultraterrene: grazie all’abile reticenza dell’autrice, non sappiamo mai se i personaggi non stiano in realtà affrontando le proprie ombre interiori, o il senso di minaccia generato da un mondo sul quale non hanno controllo e dove tutto viene tramato e deciso da poteri sconosciuti, in un imprecisato “altrove”.

Forse la narrazione di Davila è, in fondo, uno specchio paranoico che non si stanca di riflettere un orrore del quale sospettiamo l’esistenza, ma che riusciamo a intravedere solo con la coda dell’occhio. E non c’è dubbio che pochi autori riescano, come lei, a evocare un terrore che lo scrittore e critico messicano Severino Salazar ha definito postmoderno, in un’epoca in cui “ogni solida certezza è svanita nell’aria, e la violenza interna ed esterna va libera per le strade delle città e dei paesi”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel febbraio del 2023

Da leggere: Alejandra Pizarnik

 


Alejandra Pizarnik




Viaggiare su un foglio bianco 

L’argentina Alejandra Pizarnik, suicida a trentasei anni nel 1972, è una figura di primo piano nella letteratura di lingua spagnola del Novecento, e non solo grazie alle sei mirabili raccolte di versi, apparse tra il 1955 e il 1971, e a una singolare novella (La contessa sanguinaria), travestita da recensione di un romanzo altrui. Alla sua notorietà ha contribuito, infatti, anche la leggenda oscura, fatta di sofferenza, trasgressione, fragilità, malattia mentale e attrazione per la morte, che ancora la circonda e che ha lungamente orientato la lettura dell’opera, finché, a partire dagli anni ottanta, la pubblicazione di nuovi materiali (prose, corrispondenza, diari) ce l’ha mostrata come un mutevole universo in espansione, tanto che la più attendibile biografa di Pizarnik, Cristina Piña, ha affermato: “Ogni generazione va incontro a una Alejandra diversa”.

A reperire gran parte degli inediti sono state Olga Orozco e Ana Becciu, che subito dopo la morte dell’autrice hanno catalogato una mole considerevole di poesie, audaci prose dal tono umoristico e osceno, manoscritti affollati di eleganti scarabocchi, taccuini trasformati in objets d’art da collages e disegni, e infine i venti quaderni dei diari, migliaia di pagine scritte nell’arco di diciotto anni, tra il 1954 e il 1972, che dopo aver viaggiato tra due continenti, passando per mani diverse, sono approdate alla biblioteca della Princeton University.

A renderle pubbliche ha provveduto l’Editorial Lumen, in due versioni: quella del 2003, che ha suscitato numerose critiche per i tagli e le censure (relativi soprattutto ad aspri conflitti familiari e alla sessualità dell’autrice) operati su richiesta della famiglia, e quella “definitiva” del 2013, più che raddoppiata ma non ancora completa, perché la curatrice dichiara di aver rispettato “l’intimità̀ dell’autrice e della sua famiglia, e di alcune persone menzionate”. Una scelta che induce una volta di più alla discussione sul labile confine tra pubblico e privato, e contraddice l’opinione del grande teorico della diaristica, Maurice Blanchot, per il quale tutto ciò che è stato scritto va pubblicato. Tra quella che Becciu definisce “curiosità morbosa” e la richiesta di “sapere tutto” avanzata da lettori e studiosi, si inserisce però la decisione della stessa Pizarnik, che rese pubblica una minima parte dei quaderni (una scelta di brani relativi ai quattro anni più felici della sua vita, trascorsi a Parigi), ma solo dopo averli riscritti, trasformando in maschili i suoi amori femminili e cancellando gli spunti più intimi, per imboccare la strada del diario "da scrittore".

È alla seconda e più ampia edizione che si è attenuta La noce d’oro, piccola casa editrice nata di recente, che ha suddiviso le 1104 pagine dell’originale in due volumi e manda ora in libreria il primo, Il ponte sognato. Diari 1954-1960 (traduzione di Roberta Truscia, pp. 432, e. 20,90), con la postfazione di Ana Becciu, unica curatrice dell’opera postuma. Grazie all’audacia di un editore esordiente, arriva così ai lettori italiani un testo che, come suggerisce l’ispanista Federica Rocco, si pone come centrale e in un certo senso contiene tutti gli altri.

I diari, quanto e più della corrispondenza selezionata da Bordelois e Piña (Lumen, 2017), non hanno mancato di generare interpretazioni e domande, proiettando nuova luce su un progetto che non si esaurisce nel percorso poetico, inaugurato nel 1955 con La tierra mas ajena, sulla cui copertina l’autrice porta i nomi di Flora Alejandra: il primo ricevuto alla nascita, il secondo scelto da lei e primo segnale di un significativo sdoppiamento. Sin dalle prime pagine affiora una questione che attraversa tutta la scrittura di Pizarnik, ovvero la sensazione di non essere davvero padrona della lingua in cui si esprime: in casa dei Požarnik – immigrati a Buenos Aires nel 1933 da Rivne (ora in Ucraina), e divenuti Pizarnik per un errore di trascrizione – si parlava in russo e in yiddish, e Alejandra aveva appreso a scuola uno spagnolo povero e convenzionale.

È anche l’ossessione per la parola giusta, quindi, che la porta a tessere nei diari una vasta rete intertestuale, in un dialogo con gli autori letti, citati e commentati (tra i tanti, Proust, Kafka, Vallejo, Nerval, Rimbaud, Lautréamont, Artaud, Novalis e i romantici tedeschi) che appare funzionale all’apprendistato letterario e accompagna la sperimentazione delle forme di scrittura che Pizarnik sente più vicine, come testimoniano i numerosi cambiamenti di registro e di genere, con passaggi improvvisi (a volte in un medesimo brano) dalla narratività alla poesia, o dal dialogo al flusso di coscienza.

Forte di una lunga consuetudine con la psicoanalisi, Alejandra compone il più introspettivo dei diari, è assorta in un’esplorazione di sé che non concede spazio al mondo esterno, e non si lascia sfiorare né dai luoghi in cui vive (mai descritti, mai raccontati), né dalle turbolenze politiche e sociali. Questo continuo scrutarsi, però, più che il frutto di un narcisismo adolescenziale sembra mosso ancora una volta dall’intenzione letteraria, perché il diario mira palesemente a fondare una figura autoriale, ad affermarne la singolarità e, secondo Piña, a cercare legittimazione in “un lignaggio di maledettismo e rivolta, fondato sul dolore”.
L’autrice procede così alla costruzione del personaggio che vuole diventare, per sé e per il mondo, e lo fa tramite differenti performances, presentandosi di volta in volta come figlia incompresa, bambina malata di abbandono, creatura androgina e promiscua, intellettuale che non esita a pronunciarsi, nevrotica che si nutre di psicofarmaci ed evoca il suicidio, artista che insegue la perfezione. Identità multiple che a volte adottano la prima persona, a volte si rivolgono col “tu” a un’altra Alejandra, oppure la raccontano come fosse un’estranea, sdoppiandosi all’infinito per contemplarsi dall’esterno.
In primo luogo, però, Pizarnik è colei che afferma: “Possibilità di vivere? Sì, ce n’è una. È un foglio bianco, è lasciarmi cadere sul foglio, è uscire da me stessa e viaggiare su un foglio bianco”. Farsi scrittura, confondersi con essa: il testo diventa metafora ed espressione del corpo, tema fondante dei diari come della poesia, insieme all’infanzia, alla morte, alla solitudine, alla notte, all’amore insoddisfatto, all’ansia di essere riconosciuta e accettata. Una comunanza di temi che non è assoluta: nei versi manca il valore quasi mistico che nei diari è attribuito al sesso, e non c’è traccia del tenace desiderio di scrivere un romanzo, espresso più e più volte nel corso degli anni. Chi affronti il diario, tuttavia, non può non rendersi conto che la grande opera in prosa a lungo e inutilmente progettata è in realtà questa, e che Pizarnik, forse consapevolmente e forse no, quaderno dopo quaderno ha scritto “la novela de si misma”, il romanzo di se stessa.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel febbraio del 2023